Londra: lo sguardo lieto di Herbert Blomstedt

Giovedì 21 novembre, presso il Royal Festival Hall di Londra, si è tenuto uno di quei concerti leggendari di cui serbare cara la memoria, quelli di cui un giorno vorremo parlare ai nostri nipoti. Condotto al braccio dal primo violino, Zsolt-Tihamér Visontay, Herbert Blomstedt si è issato di nuovo sul podio della Philharmonia Orchestra per dirigere la Nona Sinfonia di Mahler.

A onor del vero, prima della Sinfonia ha sorpreso molto trovare Leonidas Kavakos che suonava e dirigeva il Quarto Concerto di Mozart, in un’esecuzione cortese e cordiale, non particolarmente convincente, ma non priva di meriti, il primo dei quali è stato prestarsi per il ruolo un po’ ingrato di aprire un concerto che non ne aveva bisogno. Come ha ben chiarito l’applauso del pubblico all’ingresso di Blomstedt nella seconda parte, la ragione per cui la sala era stracolma era un’altra.

Herbert Blomstedt è un miracolo vivente di cui il mondo si è accorto tardi – il debutto con la stessa Philharmonia risale appena al 2006, quando Blomstedt aveva già 79 anni! – ma di cui la lunghissima vita e l’operosità del direttore svedese hanno permesso di godere ampiamente negli ultimi due decenni. Non mi dilungherò troppo sul senso di incredulità che si prova a osservare il vivacissimo direttore affrontare a 97 anni e dopo diverse brutte cadute uno dei grandi colossi del repertorio sinfonico. Andare ad ascoltarlo proprio su un lavoro che tradizionalmente viene associato alla grande mistero della morte, già di per sé era ragione valida per trovarsi in quella sala, quella sera.

La Nona di Mahler, in realtà, è molto più di un lamento funebre e se è vero che il lungo adagio conclusivo getta una luce retrospettiva su ciò che lo precede, ognuno dei quattro movimenti vive di una sua vita propria, che Blomstedt ha acutamente sottolineato. Il primo, lunghissimo Andante comodo è il più enigmatico tra i movimenti. L’architettura, frammentata ed episodica, rende estremamente complesso costruire un arco che si tenda sull’intero movimento. Anziché cercare di lottare con il materiale musicale, Blomstedt ha pienamente sposato la frastagliata organizzazione dell’Andante, in una sorta di infinito presente, in cui ogni episodio aveva una sua perfetta realizzazione senza necessariamente tendere ad un tutto che ne mostrasse il significato. Seguendo le sole indicazioni delle lunghe e ossute dita del direttore, abbiamo vagato per mezz’ora tra verdi pascoli e selve oscure, in cui lo stesso paesaggio rabbrividiva nei rapidi scarti di timbro e carattere con cui Blomstedt giustapponeva le diverse sezioni. I pianissimi sfibrati, l’irrisolto senso di attesa, l’improvviso erompere degli slanci più trionfali, il sospiro degli archi, morbido ma senza abbandono, mentre il calmo e regolare pulsare dei gomiti e i polsi di Blomstedt spingeva plasticamente il discorso, scolpendo ogni momento nel suo timbro e nel suo carattere, ma senza mai perdere il senso del tactus e del fluire del tempo.

Secondo e terzo movimento sono quelli che più di tutti hanno mostrato i segni dell’età. In particolare il terzo tempo, il vorticoso Rondo-Burleske, pur con alcuni sensazionali nei temi più cantabili e nei fraseggi più spigolosi, faticava a tenere costante la tensione, mentre la Philharmonia (altrimenti strepitosa) procedeva con cautela per non frantumare il complesso insieme di questo movimento. Il Ländler precedente è riuscito a tenersi più compatto, in particolare grazie alla bonaria ironia che Blomstedt ha distribuito a piene mani con evidente divertimento, non senza privarsi di qualche momento più ruvido e aspro al limite del grottesco.

Ovviamente, il movimento più sconvolgente di tutti è stato l’ultimo, lentissimo Adagio. Ma non sconvolgente per il suo struggimento, al contrario. Nell’Adagio di Herbert Blomstedt c’è speranza, c’è uno sguardo verso qualcosa di “oltre”, c’è un’incrollabile fiducia nel sacro, c’è sì la tristezza del distacco da questa vita, ma anche l’intenso desiderio di andare oltre, per ritrovarvi i compagni di una vita. Se mi è permessa una nota più personale, mi sono sorpreso a chiedermi durante l’ascolto se in quell’oltre non ci fosse per Blomstedt anche la amata moglie, scomparsa ormai nel 2003. Questo approccio mai enfatico, mai gratuitamente drammatico, ha donato all’intero Adagio una struttura tersa, sobria, dai confini ben sagomati e un approccio a tratti quasi corale, una celebrazione di quel mistero che il primo movimento esponeva in tutta la sua crudezza.

Non mi fraintenda il lettore: in questa lettura di vasta serenità non sono mancate le lacrime, ancora più copiose proprio per la sconfinata umanità che trapelava da ogni gesto del direttore, realizzata con una fedeltà altrettanto commovente da un’orchestra in stato di grazia (salvo qualche scivolata del corno). L’assenza di eccessi drammatici ha avuto semmai l’effetto di intensificare quei punti in cui la musica già naturalmente esplode in climax – qui ancora più terribili proprio perché mai spettacolarizzati. Sul finale, condotto fino al silenzio senza mai sfibrare il suono, non si può proprio più parlare.

Per chi vuole, su Instagram è presente un commovente video del finale diretto pochi giorni prima da Blomstedt con l’Orchestra della Radio Finlandese. Per chi era lì, rimarrà il bellissimo ricordo dell’intenso silenzio carico di serenità, amore e riconoscenza che ha accolto lo spegnersi dell’ultima nota.

Alessandro Tommasi
(21 novembre 2024)

La locandina

Direttore Herbert Blomstedt
Direttore / violino Leonidas Kavakos
Programma:
Wolfgang Amadeus Mozart
Concerto per violino No. 4, K. 218
Gustav Mahler
Sinfonia No. 9

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