Vicenza: quattro capolavori per i Fiati di Santa Cecilia e De Maria

L’eccezionalità del concerto tenuto a Vicenza dai Fiati dell’Orchestra di Santa Cecilia con il pianista Pietro De Maria – intendendo il termine nel senso primo: evento che costituiva un’eccezione – è stata sottolineata alla fine, al momento dei bis, da una battuta di De Maria.

«Non esistono molti pezzi per questo organico – ha sottolineato – e quindi suoneremo nuovamente una parte di quel che abbiamo già eseguito». Si riferiva al Quintetto con pianoforte, oboe, clarinetto, fagotto e corno, organico raro del quale il programma della serata aveva appena illustrato i due riconosciuti capolavori: K. 452 di Mozart (1784) e op. 16 di Beethoven (1796-97).

Per il resto, se si spulciano le enciclopedie si trova che solo pochissimi compositori dopo i due sommi hanno ritentato la ventura della singolare combinazione di timbri: all’inizio dell’Ottocento il tedesco di origine italiana Franz Danzi e Louis Spohr; molto più tardi, e più distante, Nikolaj Rimskij-Korsakov.

Fu Mozart, dunque, a creare questo organico “riservato”, che non avuto quasi seguaci: un’intuizione formidabile, che per la prima volta affiancava la tastiera a un gruppetto ben distribuito di soli fiati, lasciando completamente fuori dal discorso gli archi.

E lo faceva seguendo molteplici intenzioni creative, in particolar modo la dimensione concertante per il ruolo pianistico – che era nel 1784 il principale ambito compositivo del salisburghese a Vienna – ma anche la delicata e raffinatissima combinazione dei timbri, esplorata con suprema eleganza.

Il Quintetto K. 452 si configura quindi come una sorta di piccolo “Concerto da camera”, che fra l’altro condensa il fervido rapporto tra pianoforte e singoli strumenti a fiato, elemento caratteristico dei coevi Concerti per pianoforte e orchestra, ma là presente in misura molto più rarefatta. Nell’insieme, una riuscita abbagliante, della quale Mozart stesso era pienamente consapevole, al punto da proclamare il Quintetto – in una lettera al padre Leopold scritta pochi giorni dopo la prima esecuzione – “la migliore cosa che io abbia scritto in vita mia”.

Quanto a Beethoven, è probabile che l’ascolto del capolavoro mozartiano a Praga – dove si trovava in tournée come pianista nel 1796 – lo abbia spinto a sceglierlo come pietra del paragone di altissimo livello per risolvere una volta per tutte la complessa situazione che si era creata da quando, quattro anni prima, il conte Waldstein gli aveva augurato di diventare l’erede autentico del Genio di Mozart, rimasto orfano.

Questa profezia si era diffusa negli ambienti che contavano a Vienna e il giovane tedesco aveva bisogno allo stesso tempo di affermare la verità di quell’esoterico vaticinio e la capacità di realizzare una propria significativa autonomia. Obiettivo raggiunto in entrambi i casi con il Quintetto op. 16. Che non imita il modello mozartiano, se non nella struttura generale e ovviamente nell’organico, e semmai lo “adotta” per sottoporlo a una metamorfosi interiore, che afferma distintamente le caratteristiche uniche del nuovo Genio, il suo spazio del tutto diverso, la sua profondità espressiva accentuata, il suo impegno vigoroso di contro alla sublime nonchalance del salisburghese.

E basterà annotare l’innovativo spessore della scrittura pianistica per sottolineare quanto l’omaggio a Mozart sia allo stesso tempo un accoglimento della sua eredità ma anche un superamento e un commiato da essa, l’inizio di una nuova formidabile strada.

Intorno a De Maria, che si conferma ad ogni ascolto pianista di raffinata duttilità e di consapevolezza stilistica esemplare, si sono riuniti l’oboista Francesco Di Rosa, il clarinettista Alessandro Carbonare, il fagottista Andrea Zucco e il cornista Guglielmo Pellarin.

Sono tutti prime parti nell’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia e sono tutti virtuosi nel senso più ampio del termine, non solo per la tecnica ma per la multiforme capacità espressiva, che regala al suono di ciascuno singolarmente e nel rapporto con gli altri, una profondità e un’eleganza di rara qualità comunicativa.

Così, il Quintetto di Mozart è vissuto di sfumature nel fraseggio, di gamme dinamiche ampie ed eloquenti, di una brillantezza sorridente ma quasi introversa, lucida ma non chiassosa. Il Quintetto di Beethoven è stato sbalzato con diversa intensità, a tratti quasi corrusco nel tocco di De Maria, pieno e ricco nell’articolazione dei rapporti timbrici fra le varie regioni della tessitura dei quattro strumenti a fiato, con la sottolineatura di quanto il musicista tedesca sembri affascinato in particolare dal corno, tanto quanto Mozart lo è dal fagotto.

Come contorno rispetto ai due poli del programma, i ceciliani hanno proposto anche un paio di pagine per soli fiati sia di Mozart che di Beethoven.

Del primo il Divertimento K. 439b, dall’originale per tre corni di bassetto adattato a oboe, clarinetto e fagotto; del secondo le Variazioni su “Là ci darem la mano” dal Don Giovanni, scritte originariamente per due oboi e corno inglese e qui pure riproposte per lo stesso terzetto.

Musica questa sì semplicemente d’occasione, mondana o domestica, ma raccontata con viva partecipazione e tecnica indefettibile.

Pubblico non da tutto esaurito al Comunale di Vicenza, per questo appuntamento clou nella stagione della Società del Quartetto, ma prodigo di applausi. Il bis di cui si diceva all’inizio è stato lo squisito Rondò del Quintetto mozartiano: un ritorno alla misura che affascina, dopo i forti sapori beethoveniani.

Cesare Galla
(18 marzo 2019)

La locandina

Fagotto Andrea Zucco
Clarinetto Alessandro Carbonare
Oboe Francesco Di Rosa
Corno Guglielmo Pellarin
Pianoforte Pietro De Maria
Programma
Wolfgang Amadeus Mozart Divertimento n. 1 per oboe, clarinetto e fagotto K 439b
Quintetto per pianoforte e fiati in Mi bemolle maggiore K 452
Ludwig van Beethoven Variazioni per oboe, clarinetto e fagotto sul tema ‘La ci darem la mano’ di Mozart
Quintetto per pianoforte e fiati in Mi bemolle maggiore op.

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