Berlino: Onegin, il trionfo del repertorio
Può uno spettacolo postumo, nato quasi venticinque anni fa, continuare a sembrare fresco di produzione, non dare il minimo sospetto di essere ormai antico, affermare ancora oggi – ad autore morto da 19 anni – la sua originale e peculiare profondità di ideazione e realizzazione scenica?
Può, se il regista si chiamava Götz Friedrich (1930-2000), grande ancorché talvolta controverso maestro della nuova regia lirica tedesca nella seconda metà del Novecento. Che affronta in questo caso uno dei maggiori capolavori dell’opera russa di fine Ottocento, Evgenij Onegin, stuzzicante sfida drammaturgica di fronte alla struttura in “scene liriche” voluta da Cajkovskij per la trasposizione del romanzo in versi di Puskin. Una scelta che isola ed esalta la drammaticità dentro alla psicologia dei personaggi e al loro sofferto confronto sentimentale ed esistenziale in senso generale.
Può, se il teatro che mantiene in vita questo classico e torna a proporlo con l’orgoglio e la soddisfazione di avere nel suo patrimonio uno straordinario gioiello è la Deutsche Oper di Berlino, il palcoscenico che tenne a battesimo questo spettacolo nel lontano settembre del 1996, quando il muro era caduto da non ancora sette anni. E lo fa con il rigore che discende dalla consapevolezza di assolvere a un dovere culturale.
Per questo realizzando una ricostruzione che non mostra un filo di polvere, non abdica in alcun momento alla routine (l’ammirevole e amorevole “Spielleitung” della ripresa è di Gerlinde Pelkowski). E mettendo insieme una compagnia di canto di rara omogeneità nei livelli alti della qualità, guidata dal podio da uno specialista come Alexander Vedernikov, che fa suonare l’orchestra del teatro berlinese con una ricchezza sinfonica e una duttilità drammatica di assoluto rilievo.
Götz Friedrich riesce qui a fondere con forza comunicativa immediata le ragioni della spettacolarità di tradizione con quelle del teatro di regia, senza mai rinunciare a uno sguardo interpretativo sottile e profondo anche quando la partitura di Cajkovskij conduce il dramma nelle regioni della sontuosa “decoratività” a ritmo di danza, una delle sue più tipiche cifre stilistiche.
La scena (Andreas Reinhardt, autore anche dei costumi) è tendenzialmente astratta: un grande parallelepipedo bianco che si spinge sino a fondo scena in salita, “popolato” da pochi oggetti ora realistici, ora quasi astratti nella loro dimensione psicologica o metaforica (come la porta rotta che campeggia durante la scena del duello). Un luogo mentale prima che un ambiente caratteristico. La scrivania di Tatjana, nella cruciale scena della lettera, è minuscola, spersa in uno spazio apparentemente sovrastante, riempito però dalla tensione passionale del personaggio esattamente come dalla meravigliosa musica di Cajkovskij, che coagula nella celebre Romanza il serpeggiare di temi-guida fino a quel momento diluiti nella narrazione.
E il magistrale rapporto fra i personaggi e lo spazio che li circonda – ovvero l’evidenza di quanto essi facciano in qualche modo di questo spazio una proiezione della loro crisi esistenziale prima ancora che sentimentale – si conserva anche nella grandi scene d’insieme, attraversate da magnifiche danze come il Valzer nel secondo atto e specialmente la Polonaise nel terzo, restituite dalle coreografie di Stefano Giannetti (impeccabile l’Opernballet della Deutsche Oper, con solisti di gran vaglia) secondo rigore classico, “en blanc”, ma “relegate” da Friedrich oltre un sipario trasparente mentre il dramma della rinuncia e dell’abbandono si dipana a proscenio. Teatro integrale, che spiega in maniera emozionante come l’opera di Cajkovskij costituisca un passaggio imprescindibile tra il fuoco romantico e la sua irreversibile crisi.
In magnifica sintonia con questa lettura profonda e coinvolgente, che sembra cogliere ogni sfumatura del pensiero di Cajkovskij, la direzione di Alexander Vedernikov risulta magistrale nel dipanare la complessa gamma espressiva della partitura. C’è forza sinfonica, in questa interpretazione, ricchezza di sfumature, capacità di alternare il brillante al patetico e al melanconico fino alla disperazione passionale che avvolge il duetto finale. Fraseggio, colori e dinamiche sfuggono alla retorica romantica per diventare il suono di un’interiorità sofferta e incerta, tormentosa e tormentata.
Compagnia di canto internazionale di splendida efficacia. Il soprano australiano Nicole Car è una Tatjana dalle adeguate inflessioni scure nel colore e dalla magnifica introspezione espressiva, che delinea nel personaggio la sofferenza di un’anima divisa fra impulso all’affermazione di sé e vocazione alla rinuncia. Eccellente la cantabilità nella scena della lettera, nobilitata da una delle più belle melodie create da Cajkovskij, ma altrettanto il grande duetto finale con Onegin, per tensione e forza.
Nel ruolo del titolo il baritono canadese Etienne Dupuis trova gli accenti dell’insofferenza esistenziale attraverso una linea di canto mai sopra le righe, concentrata e densa, magistrale per equilibrio in tutte le zone della tessitura. Nitido nella sua disperazione e come tutti i componenti del cast esemplare nella caratterizzazione scenica, il tenore americano Matthew Newlin disegna con vibrante autenticità un Lenski votato al “cupio dissolvi” suo malgrado, mentre il basso croato Ante Jerkunica, il principe Gremin, propone la sua meravigliosa Aria del terzo atto con ammirevole eleganza nel cantabile e nel colore, omogeneo fino alla zona più grave della tessitura. Brillante e ironico Peter Maus nel caricaturale couplet di Triquet al secondo atto.
Tutti da citare i comprimari: la Olga leggera di Vasilisa Berzhanskaya, la severa Larina di Kirsi Tiihonen, la balia Filippevna, amorevole ma per una volta non caricaturale, di Maiju Vaahtoluoto; e ancora Pauli-Anthony Keightley (capitano della guardia), Samuel Dale Johnson (Zareckij), Slavtscho Kurschumow. Attento e preciso il coro istruito da Jeremy Bines.
Un piccolo inconveniente tecnico, alla rappresentazione cui abbiamo assistito, la cinquantaduesima dalla prima assoluta del 28 settembre 1996, ha bloccato per circa metà della prima parte i sottotitoli in tedesco e in inglese, indispensabili per seguire al meglio un’opera ovviamente cantata nella lingua originale russa. I rischi del repertorio sono innumerevoli, ma questo problema era uno di quelli piccoli e non ha intaccato la riuscita trionfale della serata: teatro gremito, grandi applausi a scena aperta, alla fine ovazioni per tutti.
Cesare Galla
(23 marzo 2019)
La locandina
Direttore | Alexander Vedernikov |
Regia | Götz Friedrich |
Scene e costumi | Andreas Reinhardt |
Coreografia | Stefano Giannetti |
Personaggi e Interpreti | |
Larina | Kirsi Tiihonen |
Tatjana | Nicole Car |
Olga | Vasilisa Berzhanskaya |
Filipjevna | Maiju Vaahtoluoto |
Evgenij Onegin | Etienne Dupuis |
Lenskij | Matthew Newlin |
Principe Gremin | Ante Jerkunica |
Capitano | Paull-Anthony Keightley |
Saretzki | Samuel Dale Johnson |
Triquet | Peter Maus |
Orchester der Deutschen Oper Berlin | |
Chor der Deutschen Oper Berlin | |
Opernballett der Deutschen Oper Berlin | |
Maestro del coro | Jeremy Bines |
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