Napoli: la Valchiria; l’universo borghese che precipita

«Napoli è la città più viva che si possa immaginare, Richard qui sta proprio bene» scrisse Cosima Wagner a Napoli nel 1876, sei anni dopo la prima rappresentazione de La Valchiria a Monaco di Baviera nel giugno del 1870. L’Italia meridionale e il compositore tedesco hanno da sempre un legame speciale, la Mishung (mescolanza) di calore partenopeo e musica wagneriana può giocare brutti scherzi e suscitare una vera e propria esplosione di emotività e stupore, come è successo al Teatro di San Carlo di Napoli, il teatro più bello del mondo, in occasione dell’ultima recita in programma de La Valchiria di Richard Wagner.

Più di tutti questa è stata La Valchiria di Juraj Valčuha, che merita di essere nominato per primo. Quarantatreenne, slovacco, giovane Direttore Musicale del massimo partenopeo nonché Primo Direttore Ospite della Konzerthausorchester di Berlino, il giovane Maestro ha un gesto imperturbabile, maestoso e delicato allo stesso tempo.

Nella recita a cui abbiamo assistito ha regalato a tutti una serata di pura magia tenendo in pugno l’orchestra e il pubblico con stupefacente maestria.

Il sostegno musicale dato dal Direttore all’immobilismo del canto wagneriano creava costantemente un tumulto emotivo nel pubblico, stupito da tanta magnificenza sonora, che assisteva a un alternarsi di situazioni sceniche costituite da lunghi monologhi o duetti senza fine, in tedesco, con sovratitoli posizionati troppo in alto e purtroppo molto scuri. L’accompagnamento del Direttore è stato deciso, prezioso, senza alcun compiacimento; i tempi comodissimi per i cantanti, senza perdere mai la tensione drammatica e facendo risplendere le parti liriche.

L’apertura del I atto già mette subito tutti a tacere, la resa cromatica è perfetta: c’è la notte tempestosa, l’affanno, la fuga di Siegmund, e gli stessi colori ritornano nel preludio del II atto con la fuga degli incestuosi amanti disperati.

Il duetto d’amore del I atto è un respiro unico con i cantanti. L’invocazione di Siegmund: Wälse! Wälse! Wo ist dein Schwert? (Velse! Velse! Dov’è la tua spada?) riceve dal Maestro un fiume sinfonico, il risultato è grandioso e non eccessivo. La sopravvalutata cavalcata delle valchirie è giustamente straripante senza concedere troppa enfasi e tutto il III atto pulsa rovente in una miriade di pesi e colori, cesellato nello splendore dei minimi dettagli. L’intesa musicale con tutti i protagonisti è stata stupefacente, i momenti da citare sarebbero infiniti, uno su tutti l’abbraccio tra padre e figlia nel III atto, che potrebbe sembrare scontato a dirsi ma è stato il culmine musicale ed emotivo della serata, il pubblico attentissimo è rimasto senza fiato, stava quasi per esplodere in un applauso liberatorio però impensabile durante una recita wagneriana.

Il Maestro Juraj Valčuha nel portare a termine magnificamente il proprio oneroso compito è stato sicuramente aiutato dal suono ottimo dell’Orchestra del Teatro di San Carlo, orchestra di livello altissimo che non teme confronti: grandiosi gli ottoni e i fiati, leggerissimi e incisivi gli archi.

Dopo 14 anni torna a Napoli l’elegante spettacolo del geniale e pluripremiato Federico Tiezzi ripreso da Francesco Torrigiani, una regia che risulta più che mai moderna e coinvolgente. La lettura colta e raffinata data dal regista alla prima giornata della tetralogia wagneriana non cede mai alla mitologia tedesca di facile approccio anzi, prendendone le distanze, riesce a toccare e interpretare il più autentico spirito del compositore.

Tiezzi rilegge il germanesimo wagneriano in modo diametralmente opposto a quello che risulterebbe da scontate strumentalizzazioni: mette in scena un dramma familiare, soffocante, incorniciato in una geometria chiusa, rappresentato tramite una recitazione che rimanda al teatro greco, più sofocleo che euripideo, dove tutto si risolve nel gesto, nel simbolo e nella parola, non nella sovrabbondanza scenica.

All’interno di questo ambiente freudiano si scontrano due mondi, due generazioni e si consuma una dramma borghese dal carattere universale. Da un lato i vecchi come Wotan, che seppur stanchi dell’oro borghese per cui hanno lottato sono decisi a non lasciarsi sopraffare da una vita che non lascia più alcun spazio all’illusione, e dall’altra i giovani, come Brunilde, che introducono nei rapporti con gli altri una carica d’insolenza impossibile da contrastare.

La valchiria non chiede alcun permesso per compiere le proprie azioni, lo fa e basta, si veste di rosso e disubbidisce con fierezza. Solo al cospetto del padre furibondo o di fronte ai nuovi eroi che vuole testardamente proteggere sul campo di battaglia ella si calma, depone la propria lancia consegnandola al lacché e, nel III atto, seppur posizionati in altari contrapposti, padre e figlia cercano di confrontarsi, di superare il limite imposto dal dovere di famiglia, recuperare un dialogo dando spazio al loro affetto soffocato dalla società. Hier bin ich, Vater: gebiete di Strafe! (Eccomi, padre: proclama la pena!) la pena imposta alla figlia sarà la peggiore che una donna di rango possa immaginare: diventare una donna comune ed essere presa da un uomo che la terrà in un mediocre focolare domestico.

Il dovere di rispettare le regole dell’immobilismo borghese impone sia ai padri che ai figli di annientare qualsiasi aspirazione creando un dissidio interiore lacerante, che innesca solo disturbi psichici e mancanze affettive. È all’interno di questo tipo di famiglia ottocentesca, soprattutto intorno a un elegante tavolo circondato da sedie bianche, che si consuma il dramma. Che sia la famiglia meno altolocata di Hundig o quella elevata di Wotan, comunque esse verranno sconvolte dallo scandalo: una moglie che tradisce, figli fuori dal matrimonio, un incesto tra due gemelli deiner Untreue zuchtlose Frucht (il frutto impudico della tua infedeltà), tutte vergognose violazioni dei valori difesi e rappresentati dalla matrigna Fricka, custode delle regole, che non tollera adulterio e detesta quella figliastra prediletta dal marito, una donna che per lei personifica solo mancanza di controllo, impulsività e relativismo. Il personaggio di Fricka è centratissimo dal regista, è vestita di velluto verde smeraldo, ha chiome asburgico-bavaresi e guanti di velluto come tutte le protagoniste dell’opera che appartengo a una classe superiore-divina. Solamente Sieglinde non indossa guanti ma veste, insieme a Siegmund, in abiti dai colori puri, candidi e, nonostante sembri perdere il senno nel II atto, sarà madre dell’eroe che libererà il mondo dalla schiavitù del capitalismo borghese.

Il regista prima spoglia l’opera da qualsiasi sovrastruttura, poi crea egli stesso delle strutture o delle cornici in cui inquadrare il mito narrato proiettandolo nella modernità: tutti viviamo o abbiamo vissuto il dramma rappresentato, tutti siamo obbligati a confrontarci con il dolore alimentato dal contrasto nei rapporti familiari. La struttura che regge la vicenda è un cubo in ferro quasi sempre incombente sulla scena, nel I atto racchiude la lingua di frassino in cui è infilzata la spada di salvezza-Notung, nel II atto sostiene le meteoriti dell’universo borghese che precipita, nel III atto supporta le cornici che racchiudono le membra “classiche” degli eroi caduti in battaglia, membra raccolte e trascinate da valchirie rosee dalle armature luminose, dame di corte che ripudiano ipocritamente la sorella peccatrice. Nel finale, il traliccio di ferro racchiude l’altare dove verrà adagiata Brunilde addormentata in attesa di un uomo che la salvi dal sonno eterno, ma che sia almeno un eroe e non abbia paura del fuoco. Le fiamme che il padre Wotan le concede per proteggersi dal qualunquismo si accendono in tutto il Teatro di San Carlo, luci rosse bellissime infuocano il proscenio e la barcaccia, l’effetto è magistrale. Wotan, il padre comprensivo ma risoluto, circonda di fuoco l’amata figlia disubbidiente e quando sta per andarsene risalendo le mobili scalinate marmoree di “pizziana” memoria si volge indietro a rimirarla dolorosamente ancora una volta, sperando in cuor suo che abbia comunque gloria eterna.

È dichiarato da parte del regista il richiamo al teatro di Ibsen, Strindberg e soprattutto a Thomas Mann e a I Buddenbook in particolare, replica letteraria de L’Anello del Nibelungo, laddove il racconto mitico viene solamente trasferito in un’ambiente borghese deteriorato da Gold und Geld (oro e denaro) e le nuove generazioni, troppo viziate, stravolgono il passato causando decadenza e morte. Per comprendere a fondo lo spettacolo andato in scena, non si può prescindere dal pensiero del Premio Nobel tedesco su Wagner, purtroppo impossibile da riassumere in questa sede ma che il regista dimostra di conoscere nel profondo.

«Richard Wagner … non fu certo patriota nel senso dello stato-potenza, ma piuttosto socialista, utopista culturale mirante ad una società senza distinzione di classi, liberata dal lusso e dalla maledizione dell’oro, fondata sull’amore; insomma il pubblico ideale sognato per la sua arte. Il suo cuore era per i poveri contro i ricchi. Egli ha percorso il cammino della borghesia tedesca: dalla rivoluzione alla delusione, al pessimismo e all’intimismo rassegnato all’ombra del potere. Uno spirito così vivo e radicale aveva naturalmente chiara coscienza dell’unità del problema umano, della inscindibilità fra spirito, famiglia e politica: egli non ha condiviso l’autoillusione del borghese tedesco di poter essere uomo di cultura all’infuori della politica, il folle errore, responsabile della sventura tedesca. Il suo rapporto con la patria rimane … quello di un solitario incompreso e nauseato…» (Thomas Mann, Dolore e grandezza di Richard Wagner, 10 febbraio 1933, Monaco di Baviera).

Se Richard Wagner ha iniziato una spirale di rivoluzione ideologica, Thomas Mann fu testimone successivo della fatale e mortifera connessione tra la musica wagneriana e la politica che degenera proprio partendo dalla degenerazione interna alla famiglia borghese, il microcosmo della società, e la citazione del regista a La caduta degli dei più che a Gruppo di famiglia in un interno, entrambi di Luchino Visconti, è immediata, quasi scontata.

Insomma questo spettacolo partenopeo, complesso ma efficace, ci insegna che, se Wagner dev’essere, allora che dia il meglio di sé, che sia tedesco, possente, ingombrante, elaborato, intellettuale, psicanalitico, inarrivabile, che illumini le menti, che scuota i nervi e che l’impeto della sua musica sia lo specchio della rivoluzionaria modernità che rappresenta, rievocando il vero nazionalismo tedesco, il vero animo tedesco, quello esemplare, quello in cui Wagner ha vissuto e di cui è stato sintesi perfetta, quello che nell’800 ha elevato la mente umana verso l’olimpo del pensiero e della filosofia.

Le scene di Giulio Paolini sono geometrie pure, eleganti ed essenziali, che si fondono alla perfezione con le bellissime luci di Gianni Pollini. Proprio le luci così suggestive ed evocative hanno rappresentato un altro punto di forza dello spettacolo, centrando sempre nel mutare della loro intensità il focus del dramma.

I costumi firmati da Giovanna Buzzi, un’eccellenza italiana nel mondo, e dell’Assistente ai costumi Maria Antonietta Lucarelli, sono come sempre elegantissimi: ottocenteschi, sontuosi ma non sovrabbondanti e di luminosa modernità. Bellissimo il gioco di colori dei protagonisti.

Infine il cast, composto finalmente da vere voci wagneriane, come purtroppo se ne ascoltano sempre meno.

Robert Dean Smith era Siegmund, il fuggiasco irrequieto. Vero Heldentenor, dai fiati interminabili, una voce d’argento che svetta corposa e nitida nella dizione e nel timbro, il fraseggio è nobilmente sofferto e il lungo racconto del I atto è stato il suo momento di gloria.

Manuela Uhl, Sieglinde, la moglie e sorella peccatrice, vocalmente parlando è una Valchiria anch’essa, purtroppo alla recita a cui abbiamo assistito è arrivata un po’ stanca nelle finalissime e decisive battute della parte ma la prova è stata comunque maiuscola. Corposa in special modo nel registro medio-centrale, la voce è “tedesca” e di bel colore. Restituisce benissimo il fuoco passionale e la dirompenza che ne deriva senza sacrificare il lirismo del I atto e ottemperando ai toni drammatici che pure il ruolo esige.

Ekaterina Gubanova, Fricka, la moglie offesa, ha centrato alla perfezione il proprio ruolo. La voce, splendida, appartenente alla migliore tradizione russa, è di un colore che rimane impresso. Tecnicamente, sale e scende nel pentagramma senza apparente fatica. L’interprete in scena è una figura tragica e volitiva, il personaggio arriva immediato perché totale è il rispetto delle intenzioni wagneriane.

Voce timbratissima e penetrante quella del basso cinese Liang Li, Hunding, in scena con collo di pelliccia e fucile, prepotente e presuntuoso quanto il maschilismo del personaggio richiede.

Grande serata anche grazie alla prova del basso-baritono lettone Egils Silins, Wotan. Non si sa se lodare più il cantante o l’interprete, la sua prova è un crescendo senza fine. In scena è un uomo segnato dalla delusione della vita e dalle scelte delle donne che lo circondano, ma rimane pieno di dignità e di autorevolezza. Lo stile del canto è ineccepibile, il declamato incisivo, la voce è omogenea e ampia, quasi insolente nell’acuto, di quelle che più cantano durante la recita e più diventano belle.

Per ultima la svedese Irene Theorin, Brunilde. Prima di lei, al San Carlo, valchirie famose sono state: Marta Mödl, Anja Silja e Amy Shuard, e affermare che la sua prova non fa rimpiangere le voci del passato, seppur mai ascoltate dal vivo dal recensore, credo possa già bastare.

È wagneriana eccelsa e rinomata in tutto il mondo, si muove nel ruolo di Brunilde come una pantera nel suo habitat naturale, ne conosce ogni angolo ne esplora tutte le potenzialità sa benissimo come dosarsi, dove fare un passo indietro e dove gettarsi senza rete, dove sfumare, dove esagerare, dove commuovere. La voce enorme è completamente al servizio di chi conosce alla perfezione la partitura, perché il ruolo è stato consumato in anni di palcoscenico. In alcuni momenti il passaggio verso gli acuti sembra difficile, i Do sovracuti comunque ci sono tutti, l’apparente difetto nel canto diventa subito espressivo come solo le grandi sanno fare, ne deriva una forza interpretativa dirompente.

L’ Hojotoho è superato senza tanta retorica, perché la cantante sa che si tratta di un dettaglio sopravvalutato e la parte si gioca altrove. La Theorin entra in scena e attira magneticamente l’attenzione del pubblico, ha il carisma delle wagneriane storiche senza mostrare alcuna solennità fine a se stessa, e nonostante a volte rimanga immobile in palcoscenico, come richiesto dal regista, il teatro è tutto concentrato su di lei. Va da sé che nel duetto con il padre del III atto si gioca il tutto per tutto e, senza mai forzare, arriva al cuore degli spettatori.

Completano il cast le restanti splendide 8 valchirie Raffaela Lintl (Gerhild), Pia-Marie Nilsson (Ortlinde), Ursula Hesse von den Steinen (Waltraute), Julia Gertseva (Schwertleite), Robyn Allegra Parton (Helmvige), Ivonne Fuchs (Seigrune), Niina Keitel (Grimgerde) e Alexandra Ionis (Rossweisse).

Caldi applausi napoletani per tutti, tanti giovani e tanti stranieri hanno decretato un successo unanime senza sbavature, raggiunto dall’equilibrio perfetto tra le intenzioni del musicista, l’impronta registica, la direzione musicale e un cast adeguato.

Renato Olivelli
(18 maggio 2019)

La locandina

Direttore Juraj Valčuha
Regia Federico Tiezzi
Regista per la ripresa Francesco Torrigiani
Scene Giulio Paolini
Costumi Giovanna Buzzi
Assistente ai Costumi Maria Antonietta Lucarelli
Luci Gianni Pollini
Personaggi e Interpreti
Siegmund Robert Dean Smith
Hunding Liang Li
Wotan Egils Silins
Sieglinde Manuela Uhl
Brünnhilde Irene Theorin
Fricka Ekaterina Gubanova
Gerhild Raffaela Lintl
Helmvige Robyn Allegra Parton
Ortlinde Pia-Marie Nilsson
Waltraute Ursula Hesse von den Steinen
Rossweisse Alexandra Ionis
Seigrune Ivonne Fuchs
Grimgerde Niina Keitel
Schwertleite Julia Gertseva
Orchestra del Teatro di San Carlo

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