Salisburgo: attraverso lo specchio e quel che Alcina vi trovò

Esiste lo spettacolo perfetto? Qualcuno potrebbe dire di no, ma nel caso dell’haendeliana Alcina in scena al Festival di Salisburgo possiamo affermare serenamente che qui la perfezione, unita all’emozione, è praticamente raggiunta.

In un continuo gioco di osmosi Damiano Michieletto – con la complicità della drammaturgia di Christian Arseni, dell’impianto scenico miracoloso di Paolo Fantin, i costumi perfetti di Agostino Cavalca e le luci stranianti, di Alessandro Carletti – rilegge le vicende di Alcina concludendole in uno spazio che, come in altri suoi recenti lavori, si va restringendo in una dimensione quasi ibseniana e in cui gli affetti si amplificano.

Non più un’isola ma un albergo di cui la maga è proprietaria e dove la dimensione temporale è sospesa, un po’come in quello di “Shining”; un diaframma traslucido separa due mondi, quello incantato e l’altro, quello reale, all’apparenza speculari.

Alcina regna su entrambi grazie alla magia che si va via via indebolendo, facendo sì che i suoi amanti passati, trasformati in alberi e sassi nel momento in cui è venuta meno la loro fedeltà verso di lei, vadano progressivamente riacquistando la loro natura.

Una donna spaventata dal trascorrere del tempo Alcina, perseguitata dalle visioni realissime di lei bambina e vecchia, ossessivamente attaccata allo specchio dal quale entra ed esce e che, una volta distrutto da Ruggiero rinsavito, sarà causa della sua disfatta finale.

La pietas familiare fa da filo conduttore alla narrazione drammaturgica: Morgana sorella-assistente cerca di affrancarsi dalla sua gregarietà pur rimanendo devota, mentre Oronte, il suo amante qui in veste di maggiordomo-portiere, oscilla tra fedeltà e tradimento.

Tra il precettore Melisso e Ruggiero il rapporto è ben più profondo di quello fra maestro e discepolo, ma è il piccolo Oberto alla ricerca del padre Astolfo, che Alcina ha mutato in albero, a dare il senso vero all’amor filiale.

La visione di Michieletto è intimamente poetica nella sua tensione costante volta più a raccontare che non a stupire, tesa ad evidenziare non solo i punti di forza dei personaggi ma soprattutto le loro fragilità. I silenzi e le pause giocano un ruolo essenziale, quasi a voler concedere all’azione e alla musica un respiro che si fa sostanza.

Alcina canta “Sì son quella” rifacendosi il trucco e insieme notando i segni del tempo, come una diva sul viale del tramonto, mentre in “Verdi prati” Ruggiero rievoca le bellezze dell’isola con una nostalgia straziante a rimpiangere quel che avrebbe potuto essere e non è stato.

Da lacrime l’aria di Melisso “Pensa a chi geme”, cantata mentre fascia con la sua camicia il ramo sanguinante di un tronco che altri non è che Astolfo trasformato.

Sconvolgente il finale, con Alcina che, infranto lo specchio da Ruggiero, muore sul “Mi restano le lagrime – genialmente spostata dalla sua posizione originale a metà del terzo atto – strappandosi poco a poco i capelli e dopo aver rivelato da sotto il suo vestito nero quello della se stessa vecchia.

Sull’incontro e l’agnizione di Oberto – personaggio qui finalmente restituito ad una voce bianca, cosi come fu alla prima del 1735 che come interprete un John Savage quindicenne – con il padre restituito alla forma umana è difficile trattenere la commozione tanto è intenso nella sua semplicità.

Sconvolgenti le coreografie di Thomas Wilhelm, che oltre ai ballerini fa danzare i coristi e chiamano movimenti di furioso espressionismo, con grovigli di corpi arrampicati sulla parete traslucida o spazzati via dal gesto imperioso di Alcina.

Di grande efficacia i video di rocafilm, sempre in linea con la drammaturgia.

In perfetta sintonia con il dettato registico si muove l’esecuzione musicale.

Gianluca Capuano, con Les Musiciens du Prince-Monaco, tesse una tela sonora con fili dai colori vividi e palpitanti; le invenzioni dinamiche vibrano di vitalità inesauribile alternando momenti eroici ad altri di intimità meditata, il tutto a dare vita ad un racconto che non conosce cali di tensione neppure nelle pause e nei silenzi di cui si diceva sopra, evidentemente concepiti in un’esemplare visione comune con il regista.

Nel ruolo eponimo Cecilia Bartoli, meravigliosa tragedienne, si rende protagonista di una prova sublime in cui il canto si fonde con la recitazione a dar vita ad un unicum di struggente bellezza e di forza incontenibile. Se le agilità risultano come sempre luminose qui sono i pianissimi e il fraseggio a fare la differenza; “Sì son quella” e “Mi restano le lagrime”, così come i recitativi scolpiti, sono una tempesta di emozioni dalla quale neppure il più insensibile degli spettatori può uscire indenne.

Philippe Jaroussky disegna un Ruggiero appassionato e stizzoso, vero primo uomo, risolvendo con classe sia le arie a maggior contenuto di virtuosismi che quelle elegiache. Il suo “verdi prati” è un capolavoro.

La Morgana di Sandrine Piau brilla di incontenibile vitalità, forte di una vocalità sempre brillante e di una presenza scenica seducente.

Perfetta la Bradamante di Kristina Hammarström, autentico contralto e padrona di una fisicità travolgente capace di sciogliersi in dolcezze inaspettate.

Alastair Miles è Melisso imponente sia nel canto che nell’azione scenica, dolcemente paterno ma severo all’occorenza, mentre Christoph Strehl è Oronte meglio recitato che non cantato.

Lodi incondizionate per Sheen Park – Oberto – membro dei Wiener Sängerknaben, che è nato per il palcoscenico e canta e recita con la sicurezza di un artista consumato pur mantenendo tutte le sue caratteristiche infantili.

Sugli scudi il Bachchor Salzburg, diretto da Markus Obereder e che danza cantando con gli incantevoli e forsennati Rouven Pabst, Hector Buenfil Palacios, Stefano De Luca, Tomaz Simatovic, Robert Söderström, Joan Aguilà Cuevas, Edward Pearce, Erick Odriozola.

Pubblico mesmerizzato, successo trionfale e meritatissimo con ovazioni per tutti al termine di uno spettacolo memorabile.

Alessandro Cammarano
(10 agosto 2019)

La locandina

Direttore Gianluca Capuano
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Agostino Cavalca
Luci Alessandro Carletti
Video rocafilm
Coreografia Thomas Wilhelm
Drammaturgia Christian Arseni
Personaggi e intrepreti:
Alcina Cecilia Bartoli
Ruggiero Philippe Jaroussky
Morgana Sandrine Piau
Bradamante Kristina Hammarström
Oronte Christoph Strehl
Melisso Alastair Miles
Oberto Sheen Park (Wiener Sängerknabe)
Danzatori Rouven Pabst, Hector Buenfil Palacios, Stefano De Luca, Tomaz Simatovic, Robert Söderström, Joan Aguilà Cuevas, Edward Pearce, Erick Odriozola
Les Musiciens du Prince-Monaco
Bachchor Salzburg 
Maestro del Coro Markus Obereder

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