Parma: Luisa Miller in piano sequenza
L’antiteatralità messa a servizio del teatro: dopo il lo spazio straniante del “Farnese” è la volta dell’immensa navata di San Francesco del Prato, abbracciata e riempita di tubi innocenti a dar vita a una struttura in cui l’acciaio mette in risalto i mattoni scabri e spogli della costruzione focalizzando l’attenzione sull’abside che diviene il fulcro dell’azione scenica.
Il Festival Verdi prosegue nel percorso volto a portare l’opera fuori dalla sua sede naturale, trasformandola senza intaccarne la natura e ponendola di fatto in una prospettiva nuova che valorizza contenuto e contenitore.
Chiesa enorme, con problemi di acustica e di fruibilità dello spettacolo non indifferenti e che ci sono parsi risolti solo in parte: chi scrive ha fruito di una posizione del tutto privilegiata che ha permesso di vedere e ascoltare assai più che agevolmente; altra sorte, a giudicare da commenti carpiti durante l’intervallo è toccata a chi occupava le ultime file dell’immensa platea – posta in piano – o si è trovato dietro un pilastro.
Problemi che si spera trovino soluzioni negli anni a venire, perché il luogo è altamente suggestivo e merita di essere impiegato nell’ambito del cammino sperimentale che molto si addice al Festival.
Lev Dodin – coadiuvato dalla drammaturgia di Dina Dodina, che non stravolge nulla ma spiega molto – coglie sin da subito l’essenza più pregnante di San Francesco e pensa ad una Luisa Miller tutta concentrata nello spazio absidale, realizzando un’operazione registica a metà tra l’oratorio e la Sacra Rappresentazione; la Miller è dramma domestico, tanto che la tragedia di Schiller sembra in qualche modo anticipare i lavori tutti raccolti in una stanza di Ibsen e Strindberg.
La scena lignea su tre livelli immaginata da Aleksandr Borovskij – autore anche dei costumi belli e rigorosi – rimanda ad una chiesa protestante ma anche a un’aula di tribunale; il coro, in abiti monastici, è immobile sul fondo, testimone partecipe e al contempo impotente degli eventi.
L’azione si dipana in un lungo e ininterrotto piano sequenza – con i protagonisti sempre in scena, illuminati o messi in ombra dalle luci perfette di Damir Ismagilov, tutte incentrate su un’efficace alternanza di toni caldi e freddi e giocate solo su colori primari – che conduce ad una narrazione rarefatta e densa nei gesti.
I tavoli, unico elemento mobile della scena, spostati e assemblati a diventare desco, scrivania o passerella diventano alla fine la lunga mensa apparecchiata per delle nozze impossibili.
Il finale, con Rodolfo ad avvelenare non solo il vino nel bicchiere suo e di Luisa ma quello di tutti i commensali e preludio a un’ecatombe che vedrà tutti sconfitti tranne Federica, dea vendicatrice in veste cremisi, è geniale.
Roberto Abbado pulisce il suono da qualunque “verdianismo” di maniera restituendolo alla sua verità – grazie anche alla prova maiuscola dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna – attraverso un andare rapsodico fatto di sfumature dinamiche lievi ed ammalianti, di colori trasognati capaci di rendere il dramma nella sua essenza più recondita.
Nel ruolo-titolo Francesca Dotto brilla per bellezza di voce, tecnica e totale aderenza al personaggio. La sua Luisa palpita di mille emozioni, sorride e si adombra, donna e non bimba; il fraseggio è ricco e la linea di canto adamantina.
Non le è da meno Amadi Lagha – Rodolfo combattuto e appassionato – che canta benissimo dal passaggio in su, con acuti scintillanti, ma che nel registro centrale mostra qualche opacità.
Franco Vassallo disegna un Miller da antologia, volitivo e fragile, padre e guerriero; la voce corre sicura su una meravigliosa varietà di accenti e la recitazione è perfetta.
Bene fa anche Gabriele Sagona che dà vita con vocalità corposa ad un Wurm a tratti atterrito dalla sua stessa malvagità, mentre qualche ombra si ravvisa nel Walter di Riccardo Zanellato che, pur mantenendo grande autorevolezza, manifesta qualche sbiancamento nella voce.
Brava Martina Belli a tratteggiare una Federica regalmente distaccata.
Nei ruoli di contorno figurano egregiamente Federico Veltri nei panni di un Contadino e Veta Pilipenko come Laura.
Ottima la prova del Coro, preparato da Alberto Malazzi.
Il pubblico gradisce e applaude.
Alessandro Cammarano
(28 settembre 2019)
La locandina
Direttore | Roberto Abbado |
Regia | Lev Dodin |
Scene e Costumi | Aleksandr Borovskij |
Luci | Damir Ismagilov |
Assistente regista | Dmitrij Košmin |
Drammaturgia | Dina Dodina |
Personaggi e interpreti: | |
Il conte di Walter | Riccardo Zanellato |
Rodolfo | Amadi Lagha |
Federica | Martina Belli |
Wurm | Gabriele Sagona |
Miller | Franco Vassallo |
Luisa | Francesca Dotto |
Laura | Veta Pilipenko |
Un Contandino | Federico Veltri |
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna | |
Maestro del coro | Alberto Malazzi |
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!