Padova: La nostalgia di Romanovsky inaugura gli Amici della Musica
Martedì 15 ottobre si è aperta a Padova la stagione degli Amici della Musica. La storica associazione cameristica ha inaugurato la propria 63a stagione con il pianoforte di Alexander Romanovsky, in un programma interamente dedicato a Fryderyk Chopin, di fronte ad una sala colma al punto di dover mettere le sedie anche sul palco. Una visione che scalda il cuore e testimonia un crescente interesse da parte della città e del circondario per la musica (negli ultimi anni i numeri sono cresciuti a vista d’occhio e l’Orchestra di Padova e del Veneto ha appena annunciato un incremento del 25% dei propri abbonamenti), oltre naturalmente all’amore sconfinato per il compositore polacco. Di Chopin sono stati eseguite le due monumentali raccolte di Studi, op. 10 e op. 25, precedute dalle opere rispettivamente precedenti: i Tre Notturni op. 9 e le Quattro Mazurche op. 24.
Il concerto non può che definirsi un successo, ma molto si può dire sul modo di suonare di Romanovsky. Il pianista è senz’altro tra i migliori in circolazione, ma in questo concerto la sua prodigiosa abilità tecnica non è riuscita a convincermi appieno. A nulla vale staccare gli Studi op. 10 a velocità vertiginose se poi si nascondono le imprecisioni della sinistra e si sporca la destra, spesso con problemi di regolarità e definizione nei passaggi più ostici. È il caso del temibile Studio op. 10 n. 2, in cui forse sarebbe stato meglio ridurre il metronomo per favorire la precisione dell’ingranaggio: non è dalla velocità che si genera l’ebbrezza del virtuosismo, ma dalla definizione, dal totale controllo che anche nelle sterzate più furibonde non fa mai perdere il volante al pilota. Similmente si può dire di numerosi altri Studi, a partire dal primo (in cui però qualche imprecisione è quasi obbligatoria) ma anche nel decimo. Veramente incredibili, invece, l’op. 10 n. 4 e soprattutto l’op. 10 n. 12, celebre conclusione di quest’opera e trattata da Romanovsky con la sicurezza del virtuoso e il gesto drammatico del leone. Il discorso si applica quasi interamente agli Studi op. 25, nonostante la natura meno meccanicistica di questa seconda raccolta. Qui il pianista ha inoltre sofferto di un assenza di respiro, non solo all’interno del singolo studio, laddove sarebbe stato necessario prendersi il proprio tempo per separare diversi elementi, ma soprattutto tra un brano e l’altro. Studi radicalmente opposti di carattere e tono sono stati incollati l’uno all’altro, a volte senza lasciare nemmeno che il pedale di quello precedente si esaurisse, di fatto non favorendo la diversità di tocco che percorre questi brani. Per quanto perfettamente organizzate, infatti, né l’op. 10 né la più organica op. 25 sono il Carnaval di Schumann e lo stacco tra i brani è fondamentale per permettere anche al pubblico un respiro. Il respiro è forse ciò di cui ho sentito di più la mancanza: il concerto è stato affrontato dal pianista come in apnea, fino ad arrivare al punto di affrontare gli ultimi tre Studi, sicuramente e comprensibilmente esausto, con eccessiva foga e sbrigatività, quasi volesse chiuderli in fretta, quasi non volesse rimanere su quel palco. Ma non posso non comprenderlo: per un programma di questa difficoltà al pianista è stato offerto un pianoforte in condizioni non adeguate, tagliente e sfibrato nel registro acuto e sordo in quello grave, una situazione davvero inusuale se si considera l’altrimenti sempre buona forma dello Steinway grancoda regalato dalla Fondazione Cariparo alla città nel 2004. Questo disagio forse spiega anche l’assenza di quel suono bellissimo, puro e limpido cui Romanovsky ci ha ormai abituati e le difficoltà di fraseggio che hanno afflitto le opere meno virtuosistiche, Notturni e Mazurche. Ad eccezione dell’op. 24 n. 1, forse il momento più bello di tutta la serata, il pianista è apparso un po’ distratto e distaccato, anche se una certa forma di manierismo fa evidentemente parte del suo modo di suonare. Valgano per tutto gli scampanamenti tra le due mani, non solo nelle opere più salottiere, ma persino negli Studi, ogni tanto condotti fino all’eccesso con un compiacimento estetico piuttosto fine a se stesso. Ma questo manierismo, Romanovsky lo riesce a sostenere con un controllo sonoro eccellente, nonostante lo strumento, che ha condotto in alcuni momenti alla reale percezione di aver eliminato i martelletti dal pianoforte: non c’è forse cosa più difficile sul complesso strumento che riuscire ad agire a tal punto sul tocco da eliminarne la natura percussiva, ammorbidendone la pasta sonora grazie ad una presa del tasto sempre ponderata.
Al pubblico più che entusiasta, Romanovsky ha concesso tre bis, calandosi finalmente la maschera da giovinotto trentacinquenne e montandosi quella da virtuoso anni ’60: Preludio di Bach/Siloti (come Gilels!), Campanella di Liszt (come Rubinstein!) e infine Studio op. 8 n. 12 di Skrjabin (come Horowitz!). E forse un po’ così è da intendere tutto il modo di suonare di Romanovsky, come un grande omaggio a un’epoca pianistica passata, ma cui il musicista ucraino sembra guardare con affetto e un tocco di nostalgia.
Alessandro Tommasi
(15 ottobre 2019)
La locandina
Pianoforte | Alexander Romanovsky |
Programma: | |
Frédéric Chopin | |
Tre Notturni op. 9 | |
12 Studi op. 10 | |
Quattro Mazurche op. 24 | |
12 Studi op. 25 |
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