Verona: esotismo e attualità nell’atteso ritorno di Butterfly al Teatro Filarmonico

Recentemente, Fondazione Arena ha dato qualche segnale di voler fare uscire il teatro Filarmonico dal ruolo di Cenerentola della programmazione operistica veronese. Non è mai troppo tardi: la stagione 2020 appare se non altro piuttosto corposa, anche se l’analisi e i numeri del Piano di sviluppo, che si suppone sia l’attuale “bibbia gestionale”, indicano per la sala del Bibbiena un interesse e un ruolo ben diversi e pericolosamente marginali. Intanto, l’ultimo spettacolo lirico di questo scorcio di autunno-inverno rende bene l’idea, grazie alla documentazione pubblicata sul numero unico della rassegna, di quale sia stato negli ultimi decenni l’andamento della programmazione. Si parla della pucciniana Madama Butterfly, il melodramma che è quasi un monodramma e appare così focalizzato sul tragico percorso interiore della protagonista da rendere l’esotismo che l’attraversa una categoria culturale e filosofica, ben lontana dalla mera e mai decisiva decorazione. Un capolavoro che “pretende” spazi raccolti di natura esclusivamente, asciuttamente teatrale.

Non per caso, la Butterfly approdò in Arena solo nel 1978, seguendo poi, almeno fino a un certo momento, un percorso di progressiva spoliazione spettacolare: dai décor secondo una visione da cartolina del Giappone fino all’astrazione affascinante di Beni Montresor del 1997, seguita dall’esperimento multimediale-tecnologico simbolicamente posto a chiudere il secolo, nel 1999. Poi, e da lì non si è più usciti, sarebbe arrivato Franco Zeffirelli a resettare tutto, regalando di nuovo la collina di Nagasaki (rotante, però!), la casetta a soffietto, lampioncini-ponticelli-bambù e ogni altro dettaglio ininfluente, ma questo è un altro discorso. Quel che si voleva dire è che mentre dal 1978, nonostante una sostanziale “incompatibilità spaziale”, la tragedia di Cio-Cio-San diventava un “greatest hit” dell’anfiteatro, proposta in dieci edizioni (le ultime cinque delle quali dal 2004 al 2017), più o meno nello stesso lasso di tempo al Filarmonico, sua sede “naturale”, approdava appena due volte. L’ultima risale agli anni della prima repubblica: 1991, qualcosa come 28 anni fa. La presente edizione, dunque, merita la pur inflazionata qualifica di “evento” e come tale è stata salutata alla prima domenica scorsa: applausi a scena aperta nei momenti topici, vivissimi consensi alla fine, a riunire nell’apprezzamento tutti i protagonisti.

Se di una cosa bisogna dare atto allo spettacolo firmato da Andrea Cigni, con le scene di Dario Gessati e i costumi di Valeria Donata Bettella (una coproduzione tra Fondazione Arena e Teatro nazionale di Zagabria), è proprio della lucida e meditata abolizione di ogni elemento esotico esteriore o decorativo. Questa Butterfly è infatti esotica in senso culturale e per certi aspetti antropologico: quello che vi accade appare determinato da motivazioni interiori e filosofiche, spesso inesorabili, che si attuano in un quadro quasi completamente astratto, al quale solo i costumi – e nemmeno tutti – regalano una connotazione chiaramente giapponese. Che poi l’insistita ambientazione naturalistica funzioni fino in fondo (tutto avviene all’interno di un bosco di betulle, in un contesto autunnale) sarebbe esagerazione affermarlo. Non giova alla ritualità dell’assunto narrativo (che ha peraltro vari momenti significativi – sottolineati dall’apparizione di mimi in maschera kabuki) il fatto che tutti i personaggi debbano spesso fare lo slalom fra i nudi tronchi che si spostano continuamente per linee orizzontali (cioè entrano ed escono di scena, se così si può dire). Né dimostra qualche utilità il vezzo di voler dimostrare l’attualità della rappresentazione, facendo platealmente impugnare a figuranti e coristi durante la cerimonia nuziale del primo atto i loro smartphone, con tanto di flash attivato. Del resto, che non ci si trovi nell’epoca alla quale pensava Puccini (cioè la sua “epoca presente”) è dimostrato “ad abundantiam” dai costumi: quelli occidentali sono più o meno attuali, quelli giapponesi, specialmente quelli “da casa”, non cerimoniali, sono di un’eleganza molto trendy.

Nell’insieme, però, lo spettacolo afferma una sua cifra espressiva rarefatta (ma troppe foglie cadenti dall’alto nel primo atto, troppi petali di rosa nel secondo…) che trova la giusta messa a fuoco soprattutto nella seconda parte dell’opera. Quella in cui la tragedia latente – in realtà chiara nelle sue premesse a tutti quelli che assistono non meno che a quelli che circondano la protagonista – diventa conclamata in un crudele gioco di illusioni e autoillusioni. A quel punto, giova all’atmosfera psicologica anche il senso quasi claustrofobico determinato proprio dalla scenografia, in accoppiata con un abile lavoro sui colori, dal tiepido autunnale al gelido della solitudine e della morte.

Sul podio è salito Francesco Ommassini, che ben conosce l’orchestra areniana e l’ha fatta rendere al meglio quanto a ricchezza di colori e precisione. Da parte sua, il direttore ha scelto una line di forte connotazione espressiva, assai contrastata nelle dinamiche e molto mobile nella scelta dei tempi. Ne è uscita una lettura che senza tralasciare il rigoglio melodrammatico pucciniano, ha illuminato la modernità del suo gesto creativo, fra armonie e colori esotici e invenzioni timbriche.

La Cio-Cio-San giapponese “al quadrato” di Yasko Sato ha messo in evidenza una vocalità duttile e comunicativa, anche se talvolta un po’ “disarmata” rispetto alle tensioni drammatiche che il compositore impone alla parte nella zona più alta della tessitura. Ma soprattutto si è fatta apprezzare per una interiorizzata e sofisticata resa scenica, definita al meglio soprattutto nella prima parte del secondo atto: la tenera ingenuità domestica della sua Butterfly, i suoi trasalimenti privati contrapposti alla rigorosa fermezza in ambito “sociale” erano davvero coinvolgenti. Nella parte di Pinkerton debuttava il tenore ucraino Valentyn Ditiuk, che ha voce ben timbrata e linea vocale di ottimo controllo in tutte le zone della tessitura ma non ha il fisico del ruolo. Bene Manuela Custer, una Suzuki accorata e risentita, come dev’essere; molto bene Mario Cassi, uno Sharpless capace di trasmettere, grazie al suo timbro caldo e alla ricchezza espressiva, i contrasti interiori del console che assiste a una partita tragica nella quale non sa o non può intervenire come vorrebbe. Da citare anche Marcello Nardis nei panni di un insinuante Goro; Cristian Saitta, iroso Zio Bonzo; Nicolò Rigano, Yamadori attonito di fronte alla forza di carattere della “piccina” e Lorri Garcia, desolata Kate Pinkerton. Impeccabile nel celebre pezzo “a bocca chiusa” del secondo atto il coro istruito da Vito Lombardi.

Tre le repliche, con alcuni mutamenti di cast anche nei ruoli principali. L’ultima il 22 dicembre.

Cesare Galla
(15 dicembre 2019)

La locandina

Direttore Francesco Ommassini
Regia Andrea Cigni
Scene Dario Gessati
Costumi Valeria Donata Bettella
Luci Paolo Mazzon
Personaggi e interpreti:
Cio-Cio-San Yasko Sato
Suzuki Manuela Custer
Kate Pinkerton Lorrie Garcia
F.B. Pinkerton Valentyn Dytiuk
Sharpless Mario Cassi
Goro Marcello Nardis
Il Principe Yamadori Nicolò Rigano
Lo zio Bonzo Cristian Saitta
Il Commissario imperiale Salvatore Schiano di Cola
L’Ufficiale del registro Maurizio Pantò
La Madre di Cio-Cio-San Sonia Bianchetti
La Cugina di Cio-Cio-San Manuela Schenale
Orchestra Coro e Tecnici dell’Arena di Verona
Maestro del Coro Vito Lombardi

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