Un duello discografico sulle orme del mito Farinelli: Hallenberg vs Bartoli

L’uscita quasi simultanea di due album dedicati al mito Farinelli dimostra quanto sia durevole l’onda lunga smossa nel 1994 dal filmaccio di Corbiau, il cui elemento più interessante stava proprio nel tentativo, compiuto dai laboratori dell’IRCAM parigino, di ricreare la voce perduta del grande castrato mediante il morphing di un falsettista (Derek Lee Ragin) con una soprano-coloratura (Ewa Małas-Godlewska). Da allora si sono moltiplicati i volonterosi cloni umani, nessuno dei quali, per varie ragioni, si è troppo avvicinato all’artificiale perfezione del modello tecnomorfo. E continua la faida avviatasi tra i pionieri autodidatti, oggi percepiti come inascoltabili, di metà anni ’80: controtenori contro donne con le gonne; all’agro Christofellis e alla coccodeggiante Nella Anfuso sono succeduti nella penultima e ultima generazione vocalisti dal bagaglio tecnico a volte assai raffinato. Due nomi fra tutti: Franco Fagioli e Julia Lezhneva; ma della real thing, lode a Dio, ancora nessuna traccia neppure in questa nostra epoca che vagheggia balzani esperimenti sulla produzione di ultracorpi dall’identità sessuale volatile.

Sia lode anche alla signora Hallenberg per aver onestamente dichiarato in un’intervista al “Giornale della Musica”, centrata sulla sua ultima produzione discografica: “A volte si dice che i controtenori non sono adatti per imitare i castrati: in un certo senso non lo sono nemmeno i mezzosoprani, perché nemmeno noi siamo fisicamente uguali a questi cantanti del passato. Io mi esercito quanto più posso, faccio del mio meglio, ma non ho la capacità polmonare né la qualità di voce per farlo. Sono consapevole che non sarà mai esattamente lo stesso”. Peccato che di altrettanta umiltà non soffra il suo partner di ormai lunga data, quel band-leader e musicologo Stefano Aresi che nelle note di copertina si autocertifica il ruolo di primo ritrovatore di tante verità sfuggite ai suoi predecessori. Biografia, contesto storico, prassi esecutiva storicamente informata: è arrivato Copernico.

Ermeneutica della discontinuità che non a caso si tinge di complottismo alla moda. Nel caso specifico si denuncia la propaganda antispagnola montata dall’ambasciatore britannico Keene, da Charles Burney (che intervistò di persona il Farinelli) e dal protobiografo Giovenale Sacchi (che disponeva di notizie fornite dalla cerchia di Padre Martini, altro intimo del cantante), onde propalare fake news sul conto di Filippo V e Ferdinando VI di Borbone, padre e figlio morti entrambi dementi – e questi invece sono fatti accertati. Non 4 o 5 arie ogni sera, si scandalizza il Nostro, ma 8 o 9! Il dato, testimoniato dallo stesso Farinelli, era già conosciuto e copiosamente analizzato in letteratura dal 1990; però non è stato Aresi a scoprirlo, come chiunque potrà verificare dalla tesi di dottorato (2014) di Anne Desler, l’unica studiosa di cui egli faccia menzione.

Peggio ancora quando il maestro Aresi tenta di giustificare l’organico sparagnino della sua registrazione, in pratica a parti reali, con una documentazione iconografica quando indecifrabile (un’incisione di Flipart,  1752), e quando irrilevante (un disegno a guazzo ricavato dalla Descripción del estado actual del Real Theatro del Buen Retiro […], 1758). Qui vediamo in effetti un quartetto d’archi e un cembalista che, da osservatori in riposo, assistono alla consegna del citato rendiconto da parte di un ossequioso Farinelli ai suoi regali padroni. Se Aresi non si fosse limitato a guardare le figure, avrebbe letto nella medesima fonte che dal 1748 l’organico orchestrale stabile nel Real Coliseo del Buen Retiro si componeva di 44 elementi specificati con nome, ruolo e salario: 28 archi, 7 legni (oboi e fagotti), 4 ottoni (trompas e clarines, cioè corni e cornette), 2 timpani e tre clavicembali. Una formazione cui per i tempi si addice l’epiteto di “numerosa” elargito più volte dalla “Gaceta de Madrid”. Di 28 elementi quella più ridotta che in primavera seguiva la corte alla villeggiatura di Aranjuez: 16 archi, 6 legni, 4 ottoni e 2 cembali, con sbilancio delle proporzioni a favore dei fiati visto che colà si suonava molto all’aria aperta imbarcando l’orchestra sulla flotilla del Tago. Certo non era esclusa la possibilità di organici ridotti per interventi speciali, come ad esempio due oboi e due corni: “los cuatro músicos que tocaron en los jardines de Aranjuez” nel 1754-55; ma è aberrante pretesa che per accompagnare arie d’opera in grande stile una coppia di corni si cimentasse con appena un quartetto d’archi, un contrabbasso e un clavicembalo.

Controprova empirica: nell’aria di Mele “Io sperai del porto in seno” (track 6) non è difficile percepire che i corni sono stati mixati e livellati a capocchia  mentre gli oboi si sentono poco o punto. Di altre fallacie metodologiche si tace per brevità; su una, divenuta mainstream dopo un’azzardata ipotesi di Robert Freeman (1974), abbiamo già discusso in opportuna sede scientifica: il “manoscritto di Vienna” non era dedicato a Maria Teresa, bensì al suo imperial marito Francesco Stefano. Quisquilie; ciò che qui ci preme sottolineare è l’inetta direzione musicale – piatta e arbitraria nella gestione delle dinamiche – che lascia esposta la brava Hallenberg a una grandinata di difficoltà tecniche a dir poco efferate senza offrirle più di un fragile riparo. Se con questa silloge di 6 brani l’ormai pensionato Farinelli del 1753 voleva “darsi delle arie”, lui poteva; altri proprio no.

Programma meno organico sulla carta, però gestito con maggiore professionalità, quello del Giardino Armonico nella formazione 4-5-3-2-1 negli archi, più 3 tiorbe, 2 oboi, 2 corni, fagotto, 2 trombe, cembalo e organo. Semmai qualche scialo nella sezione di continuo, ma dopo tanta carestia ben venga. Della carriera pubblica di Farinelli sono qui campionati a macchia di leopardo i debutti romani e napoletani (1724-25), gli anni di viaggio fra il Norditalia e Vienna (1731-33), e l’apogeo londinese (1735-36); gli autori sono quasi tutti di primissimo rango (Porpora, Hasse, Giacomelli e Caldara, più lo scapestrato fratello Riccardo). Piazza d’onore riservata al primo maestro del nostro eroe con 3 arie dal Polifemo, che chiude il programma sulla struggente “Alto Giove” affidata a mo’ di bonus ai monegaschi Musiciens du Prince guidati da Gianluca Capuano. E qui finalmente affiora quel Farinelli intimista, a suo stesso dire radicalmente “riformato” dopo il 1732 dall’imperial-regia lezioncina di Carlo VI; era ora. Riformato appare anche Antonini: il tono del Giardino risulta ovattato e privo delle scapigliature che sono sempre state il suo marchio di fabbrica. Al nuovo apprezzabile corso forse non sarà estranea la volontà della Diva Cecilia, cui nella tessitura centrale e nel legato cantabile riesce di far dimenticare taluni eccessi in fatto di emissione aspirata, agilità furibonde, fonetica deformata, disconnessione dei registri. Del suo vecchio stile permane un residuo nel brano d’apertura, come pure in un paio d’arie “di sdegno” e “di tempesta” (tracce 6 e 8). Ma non è impossibile che tali manierismi di dubbio gusto siano il laccio che più tiene avvinto lo zoccolo duro del suo fan club, al quale piacerà magari anche la serie degli scatti fotografici (11 salvo errore) dove la giunonica signora di Trastevere compare nei panni di un/a barbuto/a Conchita Wurst. Lungi da noi farne una questione di autenticità. Pure se il Farinelli storico confessava di essere attratto dalle donne, vale comunque l’adagio “donna barbuta è sempre piaciuta”; e non dovrà il postmoderno art director  bruciare il suo granello d’incenso sull’altare dello Zeitgeist? Buon pro’ gli faccia.

Carlo Vitali

Su gentile concessione di “Musica”, n. 312 (dicembre 2019 – gennaio 2020), pp. 82-83

Info:

The Farinelli Manuscript
Mezzosoprano Ann Hallenberg
Direttore Stefano Aresi
Stile Galante
cd Glossa GCD 92352
Farinelli – One God, One Farinelli!
Mezzosoprano Cecilia Bartoli
Direttore Giovanni Antonini
Il Giardino armonico
cd Decca 4850214

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