Daniele Gatti: ritorno a Bellini
Dal prossimo 23 gennaio, all’Opera di Roma, saranno in scena I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini. Daniele Gatti ha accettato di rispondere a qualche domanda, non solo su Bellini.
- Anni fa Richard Bonynge ci raccontò della sua formazione musicale in Australia, aveva studiato pianoforte: Schumann, Chopin. Arrivato in Europa per continuare i suoi studi scoprì l’opera lirica, in particolare la musica di Bellini lo colpì e gli parve di ritrovare le sonorità del musicista polacco nelle arie belcantiste. Come si può definire la musica di Bellini?
Certo il binomio tra Chopin e Bellini è inevitabile, a me però piace avvicinare Bellini ad un altro mondo quello tedesco di Mendelssohn; nel passaggio tra lo Sturm un Drang e il Romanticismo, non quello di Schumann e del suo solitario Manfred. Un compositore di grande raffinatezza che sta tra l’esperienza classica e questi primi moti dell’animo, dello spirito e mi viene in mente la musica di Mendelssohn, che naturalmente ha una struttura e una valenza più sinfonica; nelle sue composizioni si trova questo balance tra l’omaggio alla Classicità e l’apertura a questo afflato romantico sempre attraverso l’eleganza della forma e dell’espressione che si ritrova in Bellini. In Bellini non c’è mai un momento in cui si trascende. La poesia belliniana accomunata a Chopin, probabilmente, è molto semplice da cogliere; l’eleganza e la signorilità dell’atteggiamento le trovo più vicine a quelle di un compositore come Mendelssohn.
- Alcuni dicono che il Belcanto è un repertorio poco amato dai grandi direttori, si pensa che il lavoro del maestro si riduca ad accompagnare i cantanti. Non sono molto d’accordo soprattutto se considero il lavoro fatto da un grande come Tullio Serafin con Maria Callas, ad esempio. Lei diresse Capuleti e Montecchi nel dicembre del 1989, era giovanissimo, poi la sua carriera di direttore ha preso altre strade, ha scelto un repertorio differente dal belcanto. Cosa ne pensa?
Parlo per me: i cosiddetti appigli che il repertorio verdiano e post verdiano mi offrono dal punto di vista del trattamento della drammaturgia, dello scavo psicologico dei personaggi… beh è un mondo nel quale ritrovo più fascino. In Bellini però mi viene richiesto di mettere in evidenza il mio lato di musicista; lavorare con i cantanti su una frase musicale e poterne cogliere l’espressione essenzialmente da un punto di vista musicale è come, tutto sommato, lavorare su una frase pianistica; alla voce viene richiesta una tale virtuosità per effettuare certi passaggi equilibrati, secondo il mio punto di vista, all’interno di un gusto musicale che non trascenda la frase o il gesto scenico ma che siano letti in maniera aulica e trasfigurata e quindi il mio essere musicista esce più prepotente dell’amore che ho per il teatro. Laddove sposto la mia attenzione nella cura maniacale, posso dirlo, dei recitativi proprio per dare a questa parte dell’opera quel dinamismo e quell’interesse per la drammaturgia. C’è anche da dire che molti cantanti, proprio per la difficoltà di questo genere di opere sono seguiti da direttori che dimostrano una sensibilità all’accompagnamento al metterli a proprio agio; io cerco di non accompagnare ma di far sì che questo momento musicale avvenga – come dire? – cameristicamente, lascio la stessa orchestra interagire con i cantanti proprio per questo motivo e quindi… ecco che una volta ogni trent’anni il mio ritorno al Belcanto è una sorta di purificazione dal punto di vista puramente… puramente musicale. Bisogna dire che l’esperienza nella musica sinfonica e nel repertorio più consistente, diciamo così, mi aiuta ad andare per sottrazione verso questo genere di opera, togliere cioè tutti quegli elementi che sono tipici del teatro melodrammatico e così aiutare i cantanti ad essere espressivi solo sul controllo della voce. Non vuol dire congelarne i sentimenti ma vuol dire arrivare a toccare le corde del pubblico attraverso la musica. Un gesto drammatico teatrale, una sottolineatura testuale che possiamo trovare in Verdi crea più enfasi a tutto ciò, ma se prendiamo questa consuetudine e la applichiamo al belcantismo credo proprio che facciamo un grave errore strategico.
- I Capuleti e i Montecchi fu composta nel 1830 e precede i capolavori di Vincenzo Bellini La sonnambula e Norma sono di un anno dopo 1831, I Puritani andò in scena a Parigi nel 1835 a poche settimane dalla morte del musicista. Questa è un’opera di passaggio nel repertorio belliniano?
Difficile per me rispondere perché non sono uno studioso di Bellini; prendo l’opera in quanto tale e trovo che ha un aspetto molto suggestivo per me. Nell’ultima scena, la scena della tomba, ci si aspetterebbe un duetto tra la risorta Giulietta e il moribondo Romeo invece nessun duetto. Forse questo fu uno dei motivi per cui l’opera non ebbe un grandissimo successo e poi si cambiava il finale con quello di Vaccaj. Io trovo che per l’epoca quella scelta del musicista era estremamente moderna, in realtà è un lunghissimo recitativo inframezzato da qualche frammento melodico. Non abbiamo la forma chiusa di recitativo aria, tempo di mezzo e cabaletta, e non abbiamo neanche l’ultimo duetto d’amore ma è un elevarsi ad un teatro metafisico ed estremamente moderno. C’è un’altra cosa da sottolineare l’opera è basata da tre personaggi giovani: Giulietta, Romeo e Tebaldo coetanei e sono gli unici a cui Bellini dona uno spazio proprio, un’aria duetti e cabalette. I due personaggi adulti servono all’interno dei recitativi nel momento in cui l’azione deve svolgersi e nient’altro, però sono due pilastri, due colonne che schiacciano all’interno questa gioventù ma soltanto a questa è dedicato il canto.
Annarita Caroli
Condividi questo articolo