Scompare Nello Santi, epigono della Tradizione
«Oggi i direttori d’orchestra non amano il canto e non capiscono il teatro». Ci sono eccezioni, per fortuna, ma questa “frase celebre” di Nello Santi – ricordata dal New York Times nel tratteggiarne la figura il giorno della morte – non è solo una tagliente boutade. Difficile dire cosa pensasse degli sviluppi della regia d’opera moderna, ma di sicuro il direttore di Adria, scomparso il 6 febbraio all’età di 88 anni nella sua casa di Zurigo, era uno che non solo amava il canto ma sapeva farsi amare dai cantanti, perché conosceva come pochi l’arte della concertazione e come poche bacchette era in grado di assicurare la misura del rapporto fra orchestra e voci, sempre consapevole della cruciale necessità dell’equilibrio nel quale consiste il primo elemento della riuscita di una rappresentazione.
Questa musicale saggezza proveniva dalla sua solida preparazione (studi al conservatorio di Padova, apprendistato di alto livello fra gli altri con il suo quasi compaesano Tullio Serafin, nato a Rottanova di Cavarzere, cioè a una decina di chilometri da Adria dove era nato lui nel 1931) e dalla sua naturale intelligenza musicale. E si era rafforzata lungo i sei decenni di una carriera con pochi eguali per ampiezza e prestigio nella seconda metà del Novecento e nei primi anni del nuovo secolo.
Dopo il debutto a vent’anni al Verdi di Padova in Rigoletto, Santi aveva ben presto spiccato il volo in Europa e quindi negli Stati Uniti. Direttore musicale dell’Opera di Zurigo per oltre un decennio, dal 1958 al 1969, e in seguito più volte chiamato a dirigere nella città svizzera; sul podio alla Staatsoper di Vienna come al Covent Garden di Londra, all’Opéra di Parigi come al Grand Théâtre di Ginevra, a partire dal 1962 e per quasi quarant’anni, fino al 2000, era stato una colonna del Metropolitan di New York, dov’era salito sul podio quasi 400 volte.
Molto meno significativa, almeno fino agli anni Novanta, era stata la sua presenza nei teatri lirici che contano in Italia. Aveva diretto solo in poche occasioni alla Scala, alla Fenice, al San Carlo di Napoli. E se riconoscimento c’era stato, era stato piuttosto tardivo, arrivato quando lui ormai si dichiarava “in pensione”, ma non senza civetteria confidava di lavorare “più di prima”.
Così, per almeno un quindicennio a partire dai primi anni Ottanta, il suo teatro d’elezione in Italia era stata l’Arena di Verona, l’anfiteatro romano che proprio il suo mentore Tullio Serafin per primo aveva aperto al melodramma. In Arena diresse soprattutto Verdi e soprattutto Aida, ma salì sul podio anche per tenere a battesimo opere nuove per quel teatro all’aperto, come nel 1985 Attila, peraltro mai più riproposta.
Anche se una volta dichiarò di considerare Wagner “uno dei culti della mia vita”, la sua carriera internazionale è stata spesa specialmente nel nome di Verdi e dell’opera italiana dell’Ottocento e del primo Novecento, con notevole riguardo per Puccini. Diceva di amare tutto Verdi, ma non nascondeva la sua particolare predilezione per la “trilogia popolare”, il suo più autentico cavallo di battaglia.
A lungo la critica – non solo quella italiana – gli ha riservato la considerazione generica, distrattamente benevola o blandamente negativa, riservata ai direttori “di routine”, esperti e di notevole tecnica, ma non particolarmente incisivi o rivelatori. Anche in questo caso, il tempo è stato galantuomo: una volta superati i 60 anni, gli specialisti di qua e di là dell’Oceano, hanno cominciato a rendersi conto di quanto il mestiere e l’esperienza fossero, in Nello Santi, il tramite di una visione completa, profonda, pratica senza essere superficiale, efficace senza finire nella maniera. Era un direttore “all’antica italiana”, un musicista che conosceva il segreto di far vivere il melodramma con immediatezza palpitante. Forse l’ultimo erede di una tradizione che ha esaurito i suoi profeti.
Cesare Galla
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