La Sala Tripcovich e “Falello” de Banfield: il destino di una Trieste che scompare
Destinata alla demolizione per decisione della Giunta di centrodestra saldamente alla guida del Comune di Trieste, la Sala Tripcovich, intitolata a Raffaello de Banfield nel giugno del 2008, a pochi mesi dalla scomparsa del barone musicista, dovrebbe essere la vittima designata della riqualificazione di Piazza della Libertà, ossia la porta d’ingresso della città di Svevo e del suo un tempo importante porto.
Il condizionale è d’obbligo in una vicenda che si protrae da qualche anno, sia per le difficoltà dei lavori d’impresa, che quotidianamente creano ingorghi alla viabilità e polemiche sull’abbattimento degli alberi, sia per il clamore suscitato da una decisione controversa.
Da un lato vi sono quelli – e sono i più – che, capitanati dal Sindaco, considerano la distruzione dell’ex stazione delle autocorriere, necessaria per valorizzare e far tornare la Piazza della Libertà “a un assetto molto più naturale e in sintonia con la sua storia”.
Dall’altro vi sono ristoratori e commercianti della zona, che ne sostengono il recupero, nostalgici degli anni, e furono parecchi, in cui, chiuso il Teatro Verdi per improrogabili lavori di ristrutturazione, la Sala Tripcovich trasformata da stazione in teatro, e inaugurata il 15 dicembre del 1992, rivitalizzò la zona.
Poco più di novecento posti a sedere, tutti con buona visibilità, ottima acustica, funzionalità discreta, negli anni in cui fu la sede delle rappresentazioni dell’allora Ente Lirico, oggi Fondazione Teatro Verdi, la Sala Tripcovich accolse diversi spettacoli entrati nella storia di Trieste, lanciando future promesse della musica e mettendo in scena grandi capolavori talvolta in prima per l’Italia.
Possiamo ricordare l’Orfeo ed Euridice di Gluck nella versione Berlioz diretto da Peter Maag con una straordinaria Ewa Podles, la prima della Signorina Julie di Antonio Bibalo da Strindberg in cui si rivelò il talento tenorile di José Cura, e ancora due edizioni del delizioso Flauto magico mozartiano messo in scena da Stefano Vizioli che realizzò anche un Tristano lodato dalla critica nazionale per l’eccellenza di orchestra e cast, l’ormai raro Freischütz di Weber in lingua originale tedesca e, in francese, L’Heure espagnole di Ravel, e poi i musical e le operette, una per tutte, Sissi di Kreisler, regista Gino Landi, di cui fu protagonista Daniela Mazzucato.
Alla Sala Tripcovich l’allora Sovrintendente Giorgio Vidusso chiamò come Direttore stabile dell’Orchestra del Verdi il cinese Lu Jia, oggi molto attivo all’Opera di Pechino.
Il nome Tripcovich è quello della società triestina di armatori che ne aveva permesso il recupero e di cui Raffaello de Banfield, per parte materna, era membro. La Società fallì due anni dopo il recupero dell’edificio. Nel 2008, all’interno del teatro, ormai semi dismesso, fu scoperta la targa con la quale se ne dedicava la sala principale a Raffaello de Banfield-Tripcovich: figlio del mare, giacché erede degli armatori, ma anche figlio dell’aria. Unico erede maschio, cioè, di Goffredo de Banfield, barone e asso dell’aviazione austriaca, e perciò stesso ultimo difensore della Trieste asburgica negli anni della Prima Guerra Mondiale
Correva l’anno 1935 quando il sovraffollamento di bus e corriere in Piazza della Libertà convinse l’amministrazione del Comune di Trieste a costruire un’apposita stazione di transito. Un blocco di cemento disadorno e senza segni particolari, dalla forma rettangolare. Unica concessione un secondo corpo semicircolare quale biglietteria e area per i servizi.
Le firme del progetto erano degli ingegneri Giovanni Baldi e Umberto Nordio, che la fecero costruire in cemento armato, per un utilizzo, all’epoca, innovativo. La nuova Stazione Comunale Autolinee raccoglieva soprattutto le corriere che provenivano dal vicino Friuli, dirette verso l’Istria.
Dopo aver ospitato le stagioni del Teatro Verdi, la Sala Tripcovich fu sede di quelle del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, quando anche la sala del Politeama Rossetti ebbe bisogno di un radicale restyling. In seguito funse da sala prove per il Verdi e divenne altresì sede di altre manifestazioni, soprattutto cinematografiche, una per tutte il Festival di Alpe Adria.
Oggi il futuro dell’edificio, la cui trasformazione da stazione a teatro fu seguita dall’ingegner Dino Tamburini, mentre il progetto artistico fu ideato da Andrea Viotti, la direzione lavori e i calcoli strutturali rispettivamente da Franco Malgrande, all’epoca responsabile degli allestimenti scenici del Verdi, e da Giorgio Sforzina, è ancora incerto. “Il Comune attende la risposta di Roma” spiega Piero Geremia di Forza Italia, vicepresidente del Consiglio di amministrazione del Teatro Stabile. Il riferimento è al messaggio che l’attuale ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, ha scritto al Comune di Trieste per affermare che “l’edificio convertito a sala teatrale negli anni Novanta non si può demolire”. Il diniego arrivava in seguito a un decreto emanato dal precedente ministro Alberto Bonisoli che riportava in seno al dicastero la decisione sull’abbattimento degli edifici d’interesse storico-culturale. Pronta la replica del Sindaco che ha prodotto un ammorbidimento di Franceschini, disponibile ora a ridiscutere della questione.
Certo è che nell’arco di soli sei mesi, con uno sforzo che coinvolse tutte le maestranze e le risorse lavorative del Verdi, nacque la Sala ora denominata de Banfield-Tripcovich, quasi un miracolo di tempismo e professionalità, tanto da meritare al Teatro Verdi il riconoscimento del prestigioso Premio Abbiati della critica musicale. Nel giugno del 2008, testimonial Uto Ughi, la Sala è stata intitolata a Raffaello de Banfied, direttore artistico del Teatro Verdi per oltre ventisei anni, cosmopolita ma anche uomo simbolo della cultura musicale “a e di” Trieste. Fu lui che, nel momento del bisogno, sostenne con passione il progetto della ristrutturazione, assicurando, tramite la storica società armatoriale Tripcovich, accanto a quelli ingenti della Regione Friuli-Venezia Giulia e del Comune di Trieste, il maggior contributo per la copertura finanziaria dell’operazione.
Chi oggi passa davanti alla Tripcovich vede, però, sbiadire il molto criticato rosa pallido utilizzato per ingentilire i tratti della stazione-teatro. E sbiadisce, al contempo, anche il ricordo di Raffaello de Banfield, per tutti gli amici Falello, la cui unica memoria civica è la targa all’interno del teatro.
Nato il 2 giugno del 1922 a New Castle-upon-Tyne in Gran Bretagna dove i genitori, Goffredo e Maria dei conti Tripcovich si erano trasferiti, Raffaello de Banfield ha legato il suo nome non solo alla propria musica eseguita in ogni parte del mondo e alla sua opera di organizzatore teatrale, ma allo splendore e poi al tracollo di una società di navigazione di cui dal 1972 fu Presidente, e di cui il padre era stato responsabile del settore dei Rimorchiatori e dei Salvataggi. Il fallimento della Tripcovich segnò per Trieste la fine di un’epoca come quello dei Buddenbrook per la Lubecca di Thomas Mann.
Di cultura cosmopolita, de Banfield studiò in Svizzera, poi a Trieste, a Bologna, quindi al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia con Gian Francesco Malipiero, di nuovo a Trieste con Vito Levi, e finalmente a Parigi con Nadia Boulanger.
Ottenne il suo primo successo nel 1949 con il poema coreografico Le Combat che piacque a Stravinskij e che gli fu commissionato da Roland Petit che lo rappresentò a Londra con la sua Compagnie des Ballets de Paris, per essere subito ripreso, in versione ampliata, sia dalla compagnia del New York City Ballet diretta da George Balanchine alla New York City Opera, sia da quella del National American BalletTheatre diretta da Lucia Chase alla Metropolitan Opera House.
Nel 1955 diede alle scene l’atto unico Lord Byron’s love letter su testo di Tennessee Williams rappresentato prima alla Trulane University di New Orleans e quindi alla Lyric Opera di Chicago e più volte ripreso nella versione di Paola Ojetti da numerosi teatri italiani; al Verdi arrivò nel 1956 diretta da Glauco Curiel con Augusta Oltrabella e Nora De Rosa e fu proposta nel 1987 con Spiros Argiris sul podio e Stella Axarlis e Maria Spacagna nei ruoli centrali.
Seguirono i balletti Agostino tratto dall’omonimo racconto di Alberto Moravia e Quatuor entrato nel repertorio della compagnia di Maurice Béjart. Al 1959 risale l’atto unico Colloquio col Tango su testo di Carlo Terron tenuto a battesimo a Como, al Festival Internazionale di Villa Olmo per la regia di Filippo Crivelli, protagonista anche in questo caso Augusta Oltrabella, e spesso ripresentato in Italia e all’estero, mentre è del 1965 Alissa su testo di Richard Miller, anche questo un atto unico, rappresentata dapprima a Ginevra sotto la direzione di Gianfranco Rivoli con Virginia Zeani e Kostas Paskalis e ripresa in forma di concerto e registrata da Radio France con Georges Sebastian sul podio, e Adriana Maliponte e Renato Bruson protagonisti.
L’attività di compositore venne a cessare quando Raffaello de Banfield accettò l’incarico di direttore artistico del Teatro Verdi (1972-1996), cui si aggiunse, dal 1979, quello di direttore artistico del Festival dei Due Mondi di Spoleto, chiamato da Giancarlo Menotti.
Chi, come noi, frequentò sia le stagioni musicali del Verdi, sia gli spettacoli della rassegna spoletina può testimoniare della bontà delle proposte che de Banfield fu in grado di offrire al pubblico nel corso di quegli anni.
Fu persona di modi squisiti, amico di grandi artisti (Stravinskij, Poulenc, Karajan, che trovò rifugio a Villa Tripcovich nel secondo dopoguerra e che lo volle nella giuria del suo concorso per direzione d’orchestra a Berlino, la Callas che frequentò a Parigi), regista di qualche produzione storica (l’Ernani del Maggio Fiorentino 1957 diretto da Mitropoulos con la Cerquetti, Del Monaco, Bastianini e Christoff) e mecenate.
Frequentare le prime del Teatro Verdi, a Trieste, e vederlo affacciarsi dal suo palchetto di pepiano ti faceva sentire sicuro. Sapevi che la musica, con lui, era in buone mani.
Rino Alessi
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