Il Piave mormorò, nessuno fermerà la musica
Il racconto profuma di favola ma è vero. Tra le pieghe di quella storia sconosciuta e minuta, che spesso è capace di segnare i tempi più delle grandi battaglie, si narra di una banda del Regio Esercito diretta da Arturo Toscanini a ridosso della linea del fronte, oltre il fiume Isonzo, in quei valloni in cui oggi si parla una lingua diversa. Correva il mese di agosto del 1917 e tuonavano i cannoni della Prima Guerra Mondiale. Appena un paio di mesi dopo, da quelle terre slave il Regio Esercito sarebbe stato ricacciato fino alla pianura, una rovinosa ritirata miracolosamente assestata sul Piave.
Il Piave aveva mormorato, anzi intimato, allo straniero di non passare, poco importa se lo straniero da quelle parti avesse a lungo stazionato e fino a neppure troppi anni prima, lasciando ricordi di memorabile amministrazione. La guerra è per definizione pazza e orba. La morte invece ci vede benissimo.
Oggi, a oltre cento anni da quella serata in cui il Maestro Toscanini aveva diretto una banda di soldati carichi di pulci e zecche nella Marcia Reale e in altre canzoni patriottiche di cui oggi neppure serbiamo memoria, il popolo italiano è impegnato in una defatigante guerra di trincea. Contro un nemico ancora più insidioso dei soldati Austro-Ungarici che odoravano di crauti, perché è un nemico che non ha né odore ne un volto e neppure una famiglia che a casa piange per lui.
Alla nuova resistenza sono chiamati tanto gli Eroi lungo le corsie degli ospedali, quanto noi signori Bianchi e Brambilla, con il nostro tinello come il Piave, anche se poi le comodità riservate ai nuovi resistenti domestici sono un pochino diverse da quelle che avevano a disposizione i nostri avi lungo le fangose trincee della Grande Guerra.
Alla sforzo collettivo di una Nazione intera, mai così compatta in tempo di pace, non può sottrarsi la grande famiglia dei melomani, con le pur dovute distinzioni. E allora, all’insegna del motto l’unione fa la forza, pare più che mai necessario operare una ricognizione delle forze in campo, magari partendo dall’esame del villaggio globale dei social.
Il melomane patriottico
Ogni mattina ma anche ogni sera, quasi fosse la cerimonia dell’alza bandiera, attinge dal melodramma (tendenzialmente Verdiano) – magari con l’aiuto del bigino di gran classe che sono i monumentali tomi del Giudici – arie, romanze e soprattutto cori dal sapore patriottico. Li condivide sui social con commenti ancora più patriottici. Sui frequentatori delle rete, questi post sono pure cariche di endorfina. L’effetto analgesico ed eccitante al tempo stesso di questi contributi li rende assai graditi allo scrivente scriba, quantomeno in assenza di altre valide molecole.
Il melomane complottista
Secondo gli appartenenti a questa coraggiosa tribù Cesare non sarebbe morto per mano di Bruto & company ma si sarebbe ritirato su un isola greca insieme a Cleopatra, per loro il complotto (o forse il gomblotto) è la chiave di lettura dell’intera storia umana. Non sono pochi quello che vedono nella diffusione del virus un piano della sempre odiata Renata Scotto (ma poi perché sarà tanto odiata? la trovo adorabile signora) per costringere il melomane medio a recuperare tra i dvd un po’ impolverati, qualche vecchia produzione che la vede protagonista.
Il salice piangente
Un po’ come nella meravigliosa invocazione di Desdemona in Otello, è il melomane che indugia nel puro vittimismo programmatico. «I teatri non riapriranno mai!», «Nulla sarà più come prima.», «Non mi sarà mai rimborsato il biglietto della prima della Salomè alla Scala.». Non lo dice ma il cuor suo lacrima perché con il gruzzolo del rimborso e i recenti sconti su youporn già meditava di fare scorta per tutta la quarantena e oltre. In genere conclude la lamentosa preghiera con qualcosa del tipo non ci sono più le voci di una volta, anche se questo già lo diceva prima.
Il melomane voyeur tradito
Distribuisce cuoricini a raffica ai cantanti che pubblicano video di esibizioni casalinghe. Secondo una legge fisica di non immediata comprensione il numero dei cuoricini cresce in maniera lineare con il decrescere dell’età dell’illustre cantore, mentre raggiunge crescite esponenziali se al medesimo illustre cantore, a causa di un bottone slacciato di troppo o di una maglietta dalla scollatura più ampia del solito, scappa un accenno di pettorale. Più che dalla chiusura momentanea dei teatri, si sentono traditi dalla recente svolta castigata delle produzioni di Bieito e Graham Vick.
Il dotto melomane
Si può dire tutto di lui ma certamente conosce la partitura a memoria, se non altro perché, prima della presente guerra, si è sfangato la ben più temibile trincea del Conservatorio dove era il cocco del professore di solfeggio. Forse per questo motivo la sua carriera è finita una volta varcato in uscita il portone del Conservatorio. Inorridito dalla pochezza musicale di maggior parte dei commentatori, si scalda nella quarantena con il brodino caldo che gli cucina la mamma. Perché a quarant’anni risiede ancora con i genitori, sepolto nella sua camera da bimbo dagli spartiti delle sue meravigliose composizioni inedite.
Infine una nota per il melomane non melomane, quello che ha solide amicizie dentro e fuori i teatri ma che è consapevole della sua inadeguatezza come narratore di musica ma, in fondo, anche come uomo. Nella sua solitudine gattesca si culla nell’idea che tutto tornerà come prima, anzi meglio. Forse perché da questa brutta storia avremo imparato che ogni notte all’opera merita di essere gustata come fosse l’ultima.
Marco Ubezio
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