Sul Mar Nero e sui fiumi. Come Wolfgang rischiò di farsi cosacco

Nelle terre oggi contese fra Russia e Ucraina la modernità musicale fece ingresso a metà Settecento col rombo del cannone. Gli aratri della guerra tracciano i confini; arti e cultura seguono a rimorchio. Nel 1765 Turchi e Tàtari di Crimea, divisi da faide politico-religiose e pressati dalle offensive russe, devono ritirarsi dalla vasta regione compresa tra la foce del Dnjestr, il corso inferiore del Dnjepr e il Mare d’Azov. Nasce la Novorossija o Nuova Russia, quarta di tutte le Russie soggette allo Zar: la Grande moscovita, la Bianca o Bielorussia, e la Piccola (così gli editori della Seconda sinfonia di Čajkovskij ancora intitoleranno l’Ucraina). A rischio di farsi dei nemici, lo storico imparziale deve ammettere che a quel tempo l’Ucraina non era uno Stato ma un’espressione geografica; anzi (come dice il nome, uguale a “frontiera”) l’instabile cuscinetto fra tre imperi multinazionali: l’asburgico, il russo e l’ottomano.

Alternando battaglie e trattati, fra 1769 e 1783 Caterina II recupera dal Sultano il porto di Taganrog e occupa la penisola di Crimea, grecamente ribattezzata Tauride. Sulle nuove province da colonizzare regnerà con poteri e mezzi finanziari quasi illimitati lo stesso condottiero vittorioso, quel principe Grigorij Aleksandrovič Potëmkin soprannominato “il Taurico” le cui gesta militari e amatorie destavano ovunque ammirazione, invidia e calunnie. All’ombra del suo sregolatissimo genio innovatore fiorì persino l’arte musicale importata dall’Italia. Fiorì alla maniera russa, cioè con un misto di autocrazia orientale, illuminismo francese e burocrazia prussiana.

Di tali innesti è simbolo la rogovoj orkestr, un complesso che sbalordiva i viaggiatori europei: “Pensate a una cinquantina di sedicenti musicisti ognuno dei quali regge un corno di varie misure a scalare, come le canne di un organo. Ciascuno produce un unico suono e non legge sulla parte che un’unica nota, variabile soltanto per durata e lunghezza delle pause […]. In tal modo, mediante una generale direzione eseguono le loro arie, dalle più semplici alle più complesse. La grandiosità di questi corni, la loro purezza e profondità di suono rendono sublime siffatto concerto; l’effetto che produce è massimo, specie di notte e all’aperto. Io però dubito che si possa esportarli oltre i confini russi perché solo un automa, una canna d’organo o un servo della gleba si può costringere a tanta meccanica precisione”.

Sulla flottiglia di galere dorate che nella primavera del 1787 discese il corso del Dnjepr da Kiev fino a Cherson per mostrare a Caterina il frutto delle opere di pace sorte dal nulla a cura del suo favorito — nuove città, campi coltivati, flotte, fortezze — erano imbarcati cantanti, orchestre e cori sotto la direzione del faentino Giuseppe Sarti, già operista di fama nonché maestro di cappella del Duomo di Milano. Il clou del programma? Una fuga a otto voci per corni russi, eseguita a Cherson il 15 marzo di fronte al melomane Giuseppe II d’Asburgo, aggregatosi al sopraluogo per studiare nuove joint ventures austro-russe a spese di Costantinopoli. Concerti e cantate continuarono per il resto del viaggio via terra: prima un giro della Crimea, poi una puntata a Očakov, Jassy e Bender, sui campi di battaglia fra il Bug e il Danubio dove stava partendo la nuova campagna antiturca.

Alla sorella rimasta in Italia, Sarti scriveva di essere andato “alla guerra contro i Turchi”, ma — nonostante il suo grado di “primo tenente” — le sue sole armi erano i concerti quotidiani al quartier generale di Potëmkin e la celebrazione delle vittorie russe. Ad esempio, nel dicembre del 1788 diresse per festeggiare la presa di Očakov un Te Deum in lingua slavo-ecclesiastica (Tebe Boga chvalim) con l’ormai consueto organico di due orchestre complete, coro a quattro voci, corni russi, batterie pirotecniche e cannoni per un totale di trecento esecutori. Prima di ripartire nel 1790 per San Pietroburgo — carico di rubli, gioielli e altri cadeaux tipo la proprietà di un villaggio con servi della gleba annessi — Sarti tentò di realizzare un altro vecchio progetto di Potëmkin, aprire un conservatorio o “Accademia di musica” a Ekaterinoslav (“Gloria di Caterina”, oggi Dnipro in Ucraina), una città di nuova fondazione. L’istituto sarà soppresso nel 1796, pare dopo aver prodotto più cattedre che allievi, ma intanto Potëmkin si adoperava per dare un successore a Sarti. Da Vienna il suo agente conte Andrej Razumovskij, noto alla posterità per meriti beethoveniani, gli scrive il 15 settembre 1791 proponendogli Mozart come un ottimo soggetto “che qui ha avuto dei problemi e potrebbe essere pronto ad affrontare un tale viaggio”. Amadeus sul Mar Nero! Miraggio rimasto senza seguito per la repentina morte di entrambi, il principe in ottobre e il compositore in dicembre.

Fondata nel 1794 sul sito della turca Hadjibey, Odessa divenne il melting pot cantato da Puškin, che vi era stato esiliato nel 1823: “La lingua dell’Italia d’oro/ risuona lieta per le vie,/ dove passano lo slavo altero,/ il francese, lo spagnolo, l’armeno,/ e il greco, e il grosso moldavo,/ e il figlio della terra egiziana”. Anche ebrei in quantità, sebbene non autorizzati. Nel 1809, mentre ancora infuria la bufera napoleonica, nasce un teatro d’opera dove agisce dapprima la compagnia Zamboni-Mantovani, poi dal 1821 quella di Luigi Buonavoglia; dal 1844 la direzione passa a Luigi Ricci. Dopo due incendi e tre ricostruzioni, l’Opera di Odessa è tuttora il vanto di una metropoli portuale da 1,3 milioni di abitanti, che fra i suoi primati conta quello di capitale della musica. Nel suo albo d’oro figurano nomi eccellenti: da Luigi Zamboni, il futuro primo Figaro rossiniano, a Giuseppina Ronzi, a Caruso e Titta Ruffo, passando per Čajkovskij, Rachmaninov, Šaljapin e tanti altri. Però il testimonial più illustre resta sempre Puškin, rossiniano di ferro: Ma già l’azzurra sera imbruna,/all’opera si vada in fretta:/ danno l’inebriante Rossini,/ il beneamato Orfeo d’Europa. […]. Risuona il finale, si svuota la sala/ la folla sciama in piazza/ al lume dei fanali e delle stelle;/ i figli dell’Ausonia felice/ canticchiano la gaia melodia/ d’istinto appresa a memoria,/ e noi ringhiamo il recitativo” .

A Odessa, racconta Isaac Babel, ogni famiglia ebraica aspettava la nascita di un Messia del violino capace di emulare le fortune di certi ragazzi nati nel ghetto: Jascha Heifetz, Efrem Zimbalist da Rostov-na-Donu, Mischa Elman. Il futuro romanziere, poco dotato per la musica, deluse il padre; non così altri ragazzi di nome David e Igor Oistrakh, Nathan Milstein, Elizabeth Gilels, sorella di Emil e moglie di Leonid Kogan da Dnjepropetrovsk. Tutti nati o almeno cresciuti a Odessa, come pure in anni più recenti Svjatoslav Richter (lui non ebreo, ma tedesco del Volga) e Shura Cherkassky.

Accanto al sole di Odessa brillano gli astri minori di un’area che per le élites russe, prima zariste e poi sovietiche, era un acconto di Mediterraneo. A Taganrog, dove le navi imbarcavano il grano ucraino per i pastifici di Napoli (fra i loro capitani il giovane Garibaldi), i ricchi mercanti greci fondavano orchestre; italiani e italofili locali preferivano l’opera. L’avranno dal 1861 al 1875: Verdi, Rossini, Offenbach, Bellini e Glinka; in loggione sedeva un sensibile ragazzino di nome Anton Čechov, cui oggi quel teatro è intitolato. E nella piccola Crimea carica di storia, centri come Evpatorija, Sebastopoli, Jalta, Feodosija non fanno mancare a residenti e turisti la risorsa di un conservatorio, un teatrino, una sala da concerto. Un po’ fuori dal coro la capitale federale Simferopol’, che coltiva insieme la tradizione etnofonica turco-tàtara e il moderno musical.

Carlo Vitali

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