Gianluca Falaschi: il costume è latore di istanze silenziose

Tra i protagonisti delle due ultime inaugurazioni del Teatro Alla Scala Gianluca Falaschi – suoi i costumi dell’Attila e della Tosca – incarna la miscela perfetta di fantasia, rigore, studio e attenzione al particolare. Gli abbiamo fatto qualche domanda.

  • Costumista si nasce o si diventa?

Fare il costumista è un percorso: all’inizio è un lavoro che vuoi fare, che nasce con curiosità e attrazione, con la voglia di immaginare mondi e costruirli, soprattutto con vera passione per lo spettacolo; ma dopo è fatto di tante tappe, di incontri e di esperienze; soprattutto di sapienza artigianale che altri ti tramandano.

Si parte dai Maestri: penso sempre con enorme gratitudine ad Odette Nicoletti che quando ero giovane mi ha accolto e mi ha insegnato davvero tanto, tanto di metodo e di rigore, e della sua arte, che è inarrivabile.

E poi a valanga tutto; i registi, che ti aprono i loro universi e che in molti casi ti portano ad interrogarti su qualcosa che non avevi ancora visto; gli attori e gli interpreti, i cantanti, i danzatori, con cui moduli quello che sai e lo arricchisci ogni volta. I tanti teatri in cui vai che sono così diversi per ogni città eppure cosi simili, ciascuno con i suoi gli artigiani; e su tutto i tanti artigiani che armeggiano intorno ad un costume, nelle sartorie e nelle calzolerie, nelle parruccherie cineteatrali. Le soluzioni antiche e quelle nuove per risolvere la messa in scena.

Non si finisce mai, si diventa sempre di anno in anno, in una maniera che ai miei occhi è davvero empirica.

  • Tu hai vinto numerosi premi, penso all’”Abbiati” nel 2013 per i costumi del Ciro in Babilonia al Rossini Opera Festival e al recentissimo UBU – nel 2019 – per Orgoglio e pregiudizio. C’è differenza tra vestire un cantante e vestire un attore?

Nel lavoro che faccio prosa e lirica si sovrappongono e si influenzano a vicenda.

È sempre stato così, tranne che per qualche differenza solo tecnica.

Nei fatti, il costume risponde soprattutto ad una necessità drammaturgica, inserendosi in un racconto complesso fatto di testo e musica, regia e poesia. Si deve fare latore di istanze silenziose, evocando ricordi e pensieri, sensazioni, letterature, visioni; dichiarandosi teatrale, in bilico tra finzione e verosimiglianza, o nascondendosi in un crudo realismo.

Al centro di tutto resta comunque e sempre l’interprete, che bisogna saper accompagnare con pudore lungo tutto uno spettacolo, senza giudicare e pregiudicare il personaggio, senza impedirne l’agire, cercando una empatia con quel carattere che è chiamato a vestire.

Resta uno strumento, per tutti, per il cantante e l’attore, e il ballerino: uno strumento che viene indossato, che in quel gesto forse deve diventare necessario, come un’azione teatrale.

  • Sappiamo che i budget che i teatri riservano ai costumi sono sempre più “contratti”, in questi casi la creatività cresce con la difficoltà?

La creatività si adatta, non so se cresce. La contrazione del budget lascia molto poco margine di errore, ti obbliga ad un pensiero asciugato e sintetico. Questo vuol dire che una grossa parte del nostro tempo – di professionisti legati al costume, è spesa nel trovare la quadratura delle economie. Non ti nascondo che sia una sfida interessante- una parte del lavoro che siamo giustamente chiamati a fare.

Resta che non si può avallare qualsiasi tipo di contrazione: ciascuno di noi conosce i limiti entro i quali si possa ancora progettare uno spettacolo, al di sotto dei quali non è possibile.

Oltre credo che la creatività si debba fermare.

Perché come si rispetta il budget, si deve difendere: non solo per le possibilità di espressione del progettista, ma soprattutto per tutta una capacità artigianale del costume; perché difendendo l’importanza del lavoro, che ha un costo – e quindi i sarti teatrali, chi i costumi li taglia, i decoratori – si salvaguardano le possibilità delle generazioni a venire, la nuova generazione, il teatro che verrà: la storia futura , che non saremo più noi, che è più importante di un singolo spettacolo .

  • Perché, secondo te, in Italia una parte del pubblico rifiuta ancora il teatro di regia nell’opera – i cosiddetti allestimenti “moderni”, per intenderci – mentre non ha nessuna difficoltà ad apprezzarlo nella prosa?

Perché in realtà credo sia un pubblico diverso, perché quello che segue la lirica a volte – non sempre – non ha lo stesso interesse per il teatro di Prosa, e viceversa.

Per certi versi bisogna accompagnare il pubblico attraverso un dialogo serrato fatto di Danza, di Prosa e di Lirica, spingerlo a lasciarsi conquistare dalle contaminazioni di diversi linguaggi. Sono contrario a considerare lo spettacolo un evento, mi piace pensare che sia naturalmente parte della vita quotidiana dello spettatore: come avviene in Germania o in Francia, dove il pubblico “sta” nella vita culturale della città attraverso tutti i suoi luoghi aggregativi – incontrandosi e ponendo anche domande laddove serve, laddove non è chiaro.

Perché il pubblico è il Teatro, assieme agli artisti: bisogna considerarlo una comunità unitaria – va davvero invitato a prendervi parte. A quel punto non sarà rifiuto, ma dialogo, o anche dissenso: comunque, sempre partecipazione condivisa.

  • Ci sono registi con i quali collabori assiduamente, penso a Davide Livermore, Alfonso Antoniozzi, Arturo Cirillo, Lydia Steier. Da dove nasce l’evidente affinità che hai con loro?

 

Io sono molto grato ai registi che hai citato, perché mi hanno permesso di crescere in seno al loro lavoro, qualche volta assieme a loro. È evidente come ciascuno abbia un proprio linguaggio, un territorio personale, ed in ciascun territorio il mio muovermi è differente.

Ma sono sempre stati incontri in cui la domanda posta è precedente al “come li vestiamo?”: è più vicina a “di cosa stiamo parlando?”.

È la strada su cui mi lascio condurre nella loro narrazione: ed è in quel confronto, che si costruisce qualcosa anche più forte di una semplice affinità. È tentare di capire il più possibile ciò che è necessario sapere prima di salpare la nave.  Perché poi è un viaggio, e deve essere fiducia, reciproca, onesta, in cui è chiaro che il Regista è al timone. Credo che sia questo, il sapersi credere – il saper confidare l’uno nell’altro, che getti le basi di collaborazioni artistiche che sono lunghe, felici avventure.

  • Il Covid-19 ha azzerato lo spettacolo dal vivo, che ad oggi non sappiamo quando e come riprenderà, il tutto nel silenzio pressoché totale della politica. Si prospettano stagioni in streaming e nuove forme d’intrattenimento che prescindano dal contatto tra pubblico e palcoscenico. Come vivi questa situazione “sospesa”?

 

Io sono molto felice di sapere come si stiano studiando delle situazioni di intrattenimento che consentano alle tantissime realtà di cui è composto lo spettacolo dal vivo di andare avanti.

Personalmente però, vivo questa sospensione come una assenza. Non come un lutto, perché so che lo spettacolo ci sarà ancora: magari non subito ma speriamo ben presto, e sarà teatro e non televisione o lo schermo di un computer.

Ma è forte l’assenza. Perché il Teatro è come una casa, un luogo familiare, fatto di persone prima ancora che essere spazi, edifici, palchi. Ed è solo nell’incontro tra le persone, nella mediazione dei pensieri, nella condivisione della messinscena che si fa teatro. Ora che sono chiusi non riesco a pensarlo, il Teatro. Ne leggo, ne parlo con gli amici e con i colleghi, ma è un vuoto: e lo penso vuoto, come se fosse abbandonato ai suoi spiriti, ai ricordi, al vento, da solo.

Alessandro Cammarano

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