La musica è una scienza o un’arte? Un dibattito settecentesco

“Vorrei arrestare in Italia i progressi del sistema di Monsieur Rameau; come altresì far conoscere, che la musica è una scienza matematica al pari dell’astronomia: per quanto in opposto ne predichi quel matematico novizio della musica a Lei noto”. (padre Francesco Antonio Vallotti a padre Giovanni Battista Martini, 22.10.1779).

L’anonimo “novizio” è forse il conte Giordano Riccati, o forse lo spagnolo Antonio Eximeno, ex gesuita profugo a Roma; ma poco importa, perché incarna il partito opposto ai francescani Vallotti e Martini in una storica querelle certo meno nota di quella fra Gluckisti e Piccinisti, ma forse ancor più rivelatrice sul discorso illuministico intorno alla musica. La battaglia si svolse su molti fronti, mobilitando i grandi sapienti della Grecia antica (Pitagora, Platone e Tolomeo) contro i moderni savants, un termine che oggi si traduce “scienziati” ma che gl’Italiani del Settecento rendevano ancora con “letterati”. Il “Giornale de’ Letterati d’Italia” e il “Journal des Sçavans” non furono che due delle tante sedi in cui finì di consumarsi la rottura dell’antica unità del sapere, o ciò che di essa restava dopo la rivoluzione galileiana: l’aspirazione a fondare l’estetica su basi razionali, sperimentali e matematiche.

E qui sta il paradosso apparente. I “musici pratici”, specie quelli attivi nelle cappelle ecclesiastiche, sembrano i più motivati a raggiungere questo obbiettivo a maggior gloria di Dio; riempiono pagine su pagine di formule, frazioni e diagrammi, chiedono lumi ai professori di calcolo integrale e differenziale per consolidare teorie nate dall’osservazione empirica e intuitivamente applicate alla composizione. Mentre questi ultimi, perlopiù buoni dilettanti di musica sempre pronti a lodare l’arte dei primi, oppongono un’inflessibile resistenza alle loro avances teoretiche, ne demoliscono le pretese di scientificità con una supponenza appena venata di cortesia. Per tutti l’Eximeno afferma che la musica si serve “delle modificazioni del linguaggio [parlato], che la rendono efficace per dilettare le orecchie, e commuovere gli animi”; quindi farebbe parte della retorica, non della matematica.

La divisione del lavoro che gli armonisti-savants propongono ai “pratici” è ferrea. Così Riccati ricostruisce a modo suo la scoperta del basso fondamentale, prologo della teoria dei rivolti che stava alla base del famigerato “sistema di Rameau”: “La stessa origine dei due Modi [maggiore e minore] la comunicai l’anno 1735 al p. Francescantonio Vallotti eccellente Maestro di cappella nel tempio di S. Antonio di Padova, che avendomi partecipata la serie degli accompagnamenti, ch’egli assegnava alle corde componenti la Scala del Modo maggiore, mi diede occasione di avanzare l’utilissimo passo. L’opera Generation Harmonique di M. Rameau, in cui si contiene la medesima scoperta, fu pubblicata in Parigi l’anno 1737”.

Di fatto, già nel dicembre del 1733 Vallotti aveva comunicato a Fux il piano di un proprio trattato sui modi musicali diviso in tre parti: gli otto toni greci, i dodici modi ecclesiastici in uso fino al Rinascimento (incluso il Palestrina, cui invece Fux concedeva solo sei modi), e infine i due modi recentiores, cioè i moderni maggiore e minore. Paradosso nel paradosso: nella prefazione all’incompiuto terzo tomo di quel trattato, Vallotti afferma che l’armonia dei rivolti l’aveva scoperta, fin dai primi anni del secolo, il suo stesso maestro e predecessore nella cappella antoniana, il padre Francesco Antonio Calegari. E come? Mettendo in partitura a scopo di studio proprio le Messe del Palestrina! Lui stesso, Vallotti, avrebbe cominciato a comporre nel metodo di Calegari fin dal 1725.

Chilometri lineari di carteggi (Vallotti con Martini, Martini con Tartini, Tartini e Riccati un po’ con tutti, incluso il sommo matematico svizzero Leonardo Eulero); saggi, opuscoli, atti accademici, gettano un’incerta luce su queste rivendicazioni. Spesso fanno però balenare tratti di gelosia professionale o diffidenze tra religiosi e laici;  né manca una generica solidarietà fra Italiani, autori di scoperte che poi non riescono a pubblicare a stampa, mentre gli “Oltramontani”, afferma padre Martini, “studiano più di noi, sono più ricchi, e più potenti”. Vecchia lamentela.

Tornando però al nocciolo del problema, le posizioni si complicano vieppiù. Vallotti, come anche Riccati e Rameau, riteneva in estrema sintesi che la scala diatonica nascesse come costruzione razionale dalle triadi basate sul I, IV e V grado. Tartini, scopritore del terzo suono, pretendeva di dedurne nientemeno che la chiave segreta della sapienza egizia (tema ricorrente nel Settecento massonico), la formula per la quadratura del circolo ed altri misteri dell’universo. Nel consenso di massima  sulla realtà sperimentalmente osservabile del terzo suono – ma non sui corollari metafisici che Tartini pretendeva di dedurne – si annidano numerose le differenze intorno alla definizione di intervalli consonanti e dissonanti, dei vari generi d’armonia, dei sistemi di accordatura, ed altro ancora. Abbarbicato alle posizioni della tradizione classica, da Pitagora a Zarlino, Martini continuava invece a sostenere che la scala diatonica fosse “naturale” e “comune a tutti”, facendola derivare – sia pure con alcuni minimi aggiustamenti – dai primi sei armonici del suono fondamentale.

Ma qui scattava la tagliola dei matematici di professione, allergici alle approssimazioni. Agli empirici conciliatori della teoria con la pratica, Riccati rimprovera “l’imperfezione di determinare tutte le terze, e le seste alterate per un comma”. E che sarà mai un comma “zarliniano”? Per noi profani una quisquilia: (9/8)2/(5/4) = 81/80; la distanza fra do e si diesis. Eppure nel 1781 la prima pubblicazione del padre Alessandro Barca, professore a Padova di diritto canonico, matematica e teoria musicale, verteva intorno a qualcosa di meno: la sesta parte di un comma, nell’ambito della confutazione della teoria tolemaica sulla divisione della terza minore.

In una recensione anonima al suo scritto, comparsa nel 1782 sul solito “Journal des Sçavans”, ce n’è per tutti: Tartini e Rameau, musicisti di talento ma poco fondati in matematica, finirono per incappare in chimere “metafisico-teologiche”. Padre Vallotti “abile maestro di cappella […] aveva cominciato un grande trattato di musica di cui pubblicò anche una parte; ma essa non rispose all’attesa dei savants” per la solita ragione. Insomma, tutti bocciati in matematica. Fortuna che Riccati e Barca, profetizza il recensore, concilieranno teoria e pratica musicale nei loro trattati in preparazione. Moriranno l’uno nel 1790, l’altro nel 1814, ma la conciliazione promessa non avrà mai luogo.

Carlo Vitali

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