ricci/forte, «Non creiamo prodotti ma processi.»

Stefano Ricci e Gianni Forte, ovvero ricci/forteperforming arts, costituiscono uno dei più solidi ed innovativi sodalizi nel panorama internazionale delle arti teatrali – il plurale non è utilizzato a caso – perché la loro è un’esperienza in continuo divenire e capace di spaziare dalla prosa alla musica mantenendo  una cifra estetica immediatamente riconoscibile. Alle domande che seguono rispondono con una voce sola: e come avrebbe potuto essere altrimenti?

  • Come nasce la ditta ricci/forte?

r/f La conoscenza e l’inizio della collaborazione tra Stefano Ricci e Gianni Forte risale agli anni ’90 quando, entrambi, abbiamo cominciato a lavorare come attori in grandi compagnie dell’epoca dirette da registi del calibro di Luca Ronconi, Mario Missiroli, Luigi Squarzina, Roberto Guicciardini, e in seguito come autori teatrali e sceneggiatori prima di creare la nostra compagnia nel 2006: è nato così l’ensemble ricci/forte performing arts, un nucleo di creazione dove lavoriamo a quattro mani per la scrittura drammaturgica mentre la regia è competenza esclusiva di Stefano.

  • Siete stati entrambi allievi di Luca Ronconi all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, un regista il cui lavoro si incentra sul “levare”, sulla spoliazione del superfluo per fare emergere il testo. Poi alla New York University avete seguito i corsi di Edward Albee, scrittore “ribelle” che usa il linguaggio come un rasoio capace di fare a brandelli le apparenze. Qual è la loro lezione?

r/f Edward Albee, fra i più grandi drammaturghi del 900, è un faro di riferimento per la drammaturgia classica contemporanea, grazie soprattutto alla sua sensibilità e causticità nello smascherare il lato oscuro dei sentimenti mettendo sotto accusa la mentalità borghese. Ma l’onestà intellettuale, il potere etico del segno scenico e il rigore nell’insegnamento di Luca Ronconi restano imprescindibili: da autentico speleologo era estremamente meticoloso e scendeva in profondità inaccessibili nel suo modo di analizzare un testo; scandagliava, scomponeva e sezionava la partitura drammaturgica parola per parola, fiati e pause. Poteva restare per settimane intere su un solo verso, una frase. Questa indagine e attenzione intransigente nei confronti del “verbo” teatrale ci ha intrigato e colpito  a tal punto che, all’inizio, il testo è stato il fulcro dei nostri processi creativi. Di conseguenza le prime opere teatrali sono di impostazione classica, divise in atti e con dei personaggi. Negli Stati Uniti, inoltre, abbiamo scoperto la performing art, la realtà di un hic et nunc: essere sé stessi in tempo reale senza dover fingere in scena di interpretare un ruolo. Da quel momento, la nostra scrittura si è trasformata perché noi, Stefano e Gianni, siamo cambiati: un tandem di guastatori non allineati, senza guinzaglio, fuori posto, come una barca nel bosco. Nessun pentimento ma la volontà ferrea di ricostruire una foresta semiotica che diventasse nostra perché in quella che fino ad allora avevamo frequentato non ci riconoscevamo più. Volevamo riedificare una poetica scenica dove la parola fosse solo uno dei tanti elementi di composizione.

Dopo TROIA’S DISCOUNT (2005), l’ultima delle nostre opere scritte interamente prima dell’inizio delle prove, abbiamo introdotto le improvvisazioni, la frammentazione, la non linearità, il ritmo sincopato nel lavoro con gli attori che sono diventati così performers, funzioni essenziali della drammaturgia, per poter raccontare la vita così com’è in realtà: senza ordine e gerarchie, in una visione elaborata di un Reale perfettibile. La conseguenza di questo work in progress determina progressivamente l’abbandono dell’adesione al personaggio, spostando il focus verso lidi etici contemplanti la mercificazione e lo svilimento della dignità umana.

Nella pratica scenica il risultato è una struttura originale che vive imbastita alle emergenze espressive dei singoli partecipanti al rito scenico, responsabilizzandoli in prima persona. Il nostro linguaggio è antinaturalistico, stratificato: aulico, barocco, bulimico e allo stesso tempo secco come una fucilata, anoressico; un continuo miscuglio, un crossover fatto di pennellate su una tela immaginaria su cui si addensano codici che provengono dalla letteratura, poesia, cinema, televisione, fumetto, pubblicità, cartoon. Eliminando una certa continuità narrativa, abbiamo rotto l’idea diacronica della temporalità della narrazione, attraverso una simultaneità di azioni e talvolta anche con la mobilità del pubblico nello spazio.

Non è una gratuita violazione di regole e tradizioni, ma una complementarietà per permettere allo spettatore di ricomporre la propria visione attiva dello spettacolo. Il nostro teatro è una zona franca dove tutto è possibile, come nel laboratorio dell’alchimista: un luogo di prodigi dove si possono far scorgere miraggi che il pubblico di solito non vede. Abbiamo già gli occhi per guardare il mondo, in scena dobbiamo mostrare qualcos’altro.

  • Quanto è importante la comprensione dei classici per capire l’”attuale”?

r/f Resettiamo i classici per scoprire dove siano andati a finire i grandi eroi; per recuperare le scintille di un valore e coraggio appannati; per capire se c’è ancora oggi una brace che possa ardere dentro di noi, esseri umani annebbiati dalle nostre piccole certezze borghesi. Crediamo nelle possibilità detonanti dell’uomo e ci adoperiamo a risvegliarle. Senza uno scopo pedagogico, raccontiamo che una possibilità c’è. Non creiamo prodotti ma processi e, come autori, ci facciamo accompagnare dal nostro amico più fidato: il dubbio. All’inizio i nostri lavori sono una sorta d’esplosione lisergica e il pubblico si trova a non comprendere appieno cosa stia vedendo. Durante il cammino seminiamo briciole per decodificare quello che avviene abbassando dei ponti levatoi sulla platea e permettendo allo spettatore di organizzarsi in questa tempesta di segni: comincia a raccogliere frammenti, reperti, stralci d’emotività, tessere di un mosaico e costruirsi così il suo spettacolo non restando più passivo, come davanti ad un tubo catodico, bensì diventando protagonista di una storia intesa come schegge di una moderna ballata blues in progress.

  • All’opera siete arrivati, dopo una lunga esperienza nella prosa, nel 2015 con “A Christmas Eve” di Andrea Cera, a Spoleto e di cui avete scritto anche il libretto. L’immersione totale in un genere nuovo ne aiuta la comprensione?

r/f  A CHRTISTMAS EVE (Opera a 4 voci e lisoformio), nata su commissione del Teatro Sperimentale di Spoleto, libretto e drammaturgia di ricci/forte, musica di Andrea Cera, regia di Stefano Ricci, nostro debutto assoluto nella lirica nel 2015, è stato un’ulteriore avventura estrema in territori inattesi, un nuovo lancio nel vuoto senza rete ma con un coinvolgimento incondizionato. Qui abbiamo fatto piazza pulita della contraddizione storica tra classicismo e modernità nella composizione operistica, pur restando uno spettacolo unitario con una struttura rigorosa quanto avvincente. Un argomento forte, duro, urticante. Un rito tribale. Un caso di abuso da parte di un padre sulle sue due figlie minorenni, rivissuto anni dopo in modo diverso dalle vittime: una figlia non può perdonare, l’altra si sforza di dimenticare.  Per questo lavoro le nostre modalità di creazione sono cambiate perché è subentrato un dialogo indispensabile con una terza persona, un compositore contemporaneo, che ha elaborato una partitura struggente ed esplosiva (dove – oltre gli strumenti orchestrali tradizionali – fanno capolino suoni onomatopeici, vento, frastuoni, sgocciolii artigianali prodotti con acqua, imbuto e bottiglia) in sintonia con la nostra scrittura ossessiva (condita da citazioni testuali come, per esempio, quella di un famoso ritornello di Odio L’estate, omaggio a Bruno Martino) a cui poi si è aggiunta, oltre all’inedito canone cantato delle parole da parte dei cantanti, la novità di un mood strumentale dal vivo con la lodevole direzione del maestro d’orchestra Marco Angius. Abbiamo imparato molto da questa esperienza. Ci siamo trovati di fronte agli apparenti limiti teatrali della messa in scena lirica e abbiamo trovato modi originali per superarne gli ostacoli.

  • Il vostro debutto in un’opera di grande repertorio, “Turandot” allo Sferisterio di Macerata nel 2017, vi ha visti vincitori del Premio “Abbiati”. L’allestimento scava profondamente nella psicologia non solo dei personaggi, ma soprattutto nei meandri del coté culturale da cui essi provengono. Che percorso è stato seguito? 

r/f In una tensione immaginifica e simbolica, creata tutta sul dentro e sul fuori, sul visto e non visto, TURANDOT è una favola crudele, sospesa in una moderna dimensione onirica, psicanalitica. Abbiamo voluto, con uno sguardo disincantato ma pur sempre rispettoso, vivisezionare il reale per catturarne l’essenza viscerale raccontando di una bambina problematica e viziata, burattinaia di una corte di spettri creati dalla sua fantasia, che, pavoneggiandosi in groppa a un gigantesco orso polare, gioca alla principessa sanguinaria – con i suoi ministri clown – di un raggelato regno vintage anni ’60. Ma, grazie all’amore, questa ragazzina capricciosa scongelerà il suo cuore diventando finalmente una donna di oggi, libera dai suoi timori di crescere: “chi ha paura muore ogni giorno”, una frase di Shakespeare, troneggia su cartelli di un coro manifestante sul finale dell’opera.

  • Il “Nabucco” dello scorso anno a Parma, nonostante l’annunciata bagarre alla Prima, è stato un successo pieno. È difficile vincere le resistenze del pubblico – italiano, si intende – nei confronti di una visione teatrale contemporanea?

r/fLibero sempre non è il pensier liberamente espresso” (Alfieri). Il teatro è deposito di emozioni, un organismo vivente, che procede su un sentiero tortuoso ma aperto verso altri orizzonti. E noi siamo dei funamboli su una lunga corda tesa nel vuoto, sentinelle vigili in perenne migrazione: raccontare solo progetti poetici in cui ci riconosciamo, privi di qualunque spirito rivoluzionario ma sospinti dalla volontà di conquistarci una nostra visione stereoscopica di questa realtà nevrotica e fagocitante sotto di noi, di lasciare delle impronte e di esprimerci con un nostro libero personale codice fornendo mappe allo spettatore per permettergli di decidere che strada prendere per il suo viaggio. Questo, naturalmente, è un lusso con un prezzo che abbiamo sempre pagato senza alcuno sconto. Il presente è un vetro troppo affumicato per vederci attraverso. Il demone del conformismo non è mai stato cosi potente e pervasivo. Impantanati nella fossa comune del lamento istituzionalizzato, immersi nelle secche della banalizzazione culturale, nell’idolatrare divinità minuscole della globalizzazione e del politically correct, tramortiti dal fracasso e dal dispotismo – in un gioco interminabile di riflessi – ci ritroviamo anche noi oggi, a piangere il nostro Paese “sì bello e perduto”. Incredibilmente, nulla è mutato da quando NABUCCO ha debuttato il 9 marzo 1842 al Teatro alla Scala di Milano. Dal momento che non ci interessava fotografare l’attualità, aggrappandoci alle liane della fantasia, abbiamo posto una lente d’ingrandimento su noi italiani e su come potremmo diventare in un imminente futuro prossimo. Ogni spettacolo è un viaggio, una turbina generatrice di visioni, che prevede nuovi strumenti di perlustrazione. Anche la Lirica deve fare i conti con questa mutazione, accedendo a ogni possibile mezzo espressivo per sintonizzarsi con un pubblico sempre più esigente e che sceglie ancora il confronto dal vivo.     

  • Mi riallaccio alla domanda precedente: ricci/forte lavora moltissimo in Francia, che differenze ci sono tra l’ambiente teatrale francese e quello italiano?

r/f  Nessuna, il cielo è identico dappertutto. Nonostante le iniziali difficoltà dovute alla prigione della lingua e dei codici linguistici, in Francia, come in ogni angolo del pianeta in cui siamo stati invitati, siamo riusciti a creare un comune alfabeto espressivo che ha travalicato ogni perimetro geografico, esplorando paesaggi esteriori e interiori, producendo effetti analoghi alle scosse telluriche e strappi emotivi sottopelle.

  • Che teatro immaginate quando, alla fine di questa pandemia che ha azzerato gli spettacoli dal vivo, si potrà uscire dal virtuale e tornare al reale?

r/f Ci stiamo trasformando in una società “insulare”, dove il pessimismo è indossato come un’uniforme. La gente, barricata nei confini delle proprie mura domestiche, in compagnia della paura, dell’ansia e della precarietà di vivere, rinchiusa in armature della solitudine, smarrita al cospetto dei nuovi regimi affettivi ed esistenziali imposti dalla pandemia del Coronavirus, sta sempre più perdendo il senso di comunità. Ci auguriamo che si riesca a fare i conti con questa grande incertezza in tutti i campi –  e che pende sulle nostre teste come una spada di Damocle – perché sarà un elemento non biodegradabile e inespugnabile della condizione umana; che si possano riaprire delle feritoie in queste fortezze per provare a far uscire e condividere le nostre emozioni, a stare insieme e scambiarci quel granello di poetica magica follia che ognuno porta dentro di sé. Abbassare finalmente gli schermi protettivi, regolare l’orologio del cuore e sentire il ticchettio imprevedibile delle nostre passioni. Riscoprire il cambiamento, senza azzannare ostinatamente il consueto, rimane l’unico modo per tornare a vivere.

Alessandro Cammarano

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