Intervista impossibile con Duccio di Buoninsegna, pittore senese

Duccio: Poiché, come tu dici, facesti tanto cammino per discorrere meco, risponderò alle tue questioni, o postero; ma che sian poche e discrete.

Maestro, posso garantirle solo la brevità. Ecco: che tipo d’uomo era lei?

Duccio: E chi può rispondere per sé a siffatta questione? Lo potresti tu? Fui pittore, pittore eccellente. E fui senese. Che più domandi?

Come divenne pittore? Per eredità familiare o per scelta?

Duccio: Io avevo forse quattr’anni quando la mi’ madre mi menò ai Vespri nella chiesa dei Servi. Un uomo dipingeva una tavola di Nostra Donna col Bambino. Benché lacero e smagrito, pareva gaio, e le brigate lo chiamavano “maestro”. Mi disse ch’era fiorentino, fatto prigione di guerra a Montaperti; quella tavola era il prezzo della sua libertà. Volli esser pittore. Quando fui per la prima volta in Firenze, vidi il terribile Inferno a mosaico che quell’uomo aveva posto in Battistero e seppi il suo nome…

Coppo di Marcovaldo?

Duccio: Desso. Senza saperlo fu il mio primo maestro.

E la pittura ha poi mantenuto le promesse?

Duccio: Fatiche molte, danari scarsi. Ma libertà sì. Tenni testa ai Grandi; conobbi giorni di trionfo.

Ci faccia un esempio, maestro.

Duccio: La mattina del 9 giugno 1311 – era scorsa da poco l’ora terza – un fiume di popolo giunse alla porta della mia bottega nella via di Stalloreggi. Preti e confratelli in cappa magna andavano innanzi salmodiando. I musici della Signoria, trombe e cennamelle, saettavano di suoni esultanti l’aria chiara; i naccarini picchiavano con forza sui tamburi. Poi venivano i nove Priori, e tutti i consiglieri in vesti magnifiche con le mazze, la spada ignuda e l’altre insegne del potere. Poi i fanciulli vestiti di bianco cantando le laudi, e fra loro i miei figlioli Tommé e Francesco, voci e sembianze d’angioli, coronati di lauro. Poi un carro coperto di drappi di sciamito vermiglio, tirato da quattro bovi bianchi di Maremma…

Il carroccio del Comune di Siena!

Duccio: Tu dici ‘l vero. Eccolo fermo innanzi alla porta della bottega mia, ed io, sudando freddo, a dare ordini a garzoni e facchini: “Piano e issa – oh issaa! Traete con garbo, figli de le putte, ché mi sconciate la cimasa! Ohimè la predella! Vi colga el càncaro, disutilacci! Ponete giù ora! Giùso! Alto! È quasi fatta! Legate saldi quegli occhielli, al nome di San Cresci! È fatta! Calate i teli, ché tutto il popolo veda!”

Coro: La splendïente luce quando apare/ in ogne scura parte dà chiarore,/ cotant’ha di vertute il suo guardare/ che sovra tutti gli altri è ’l suo splendore/. E li pintor la miran per usanza,/ per trare asempro di sì bella cera/ per farne a l’altre genti dimostranza.

 

Duccio: L’oro del fondo barbagliava al sole; la città proruppe in mille e mille voci d’applauso verso la Nostra Donna Bella. Il carro ondeggiava lento, seguito dai Grandi con le candele accese. Poi i gonfaloni delle Arti, e il popolo minuto alla rinfusa. Mezza Siena camminava dietro la tavola di Nostra Signora in maestà; l’altra mezza stava alle finestre gittando fiori. Sonarono più forte le trombe, e quelle del Podestà risposero dai veroni del Palazzo pubblico quando il carro entrò nella piazza del Campo; indi la musica fu coperta dal rombo delle campane a stormo finché non si giunse alla porta maestra del Duomo. Qui la tavola fu levata a spalle fino all’altar maggiore, dove il vescovo pregò la Madre di Dio, nostra avvocata, di guardarci per sua mercé dalle mani dei traditori e dei nemici di Siena. E nel fine dell’orazione lodò sì nobile pittura e il suo autore, spiegando al popolo i versi latini che avevo dipinto sul gradino del trono:

 

Mater Sancta Dei

sis causa Senis requiéi

sis Ducio vita

te quia pinxit ita.

 

Tu intendi il latino, o postero?

Un poco. Si prega la Madonna di donare pace a Siena e  lunga vita a lei, Duccio, che l’ha dipinta.

Duccio: Per me la preghiera andò spersa al vento. I pochi anni che ancora mi restavano da campare furono attossicati dalle dicerìe dei Senesi sul perché con i tremila fiorini spesi dal Comune per quell’opera io mi fossi rimasto pieno di debiti. Mi facevano i conti in scarsella, i pidocchi! Quanto alla pace per Siena, voi posteri ne sarete meglio informati. So che standomi in letto agli ultimi, mi giungevano dalla finestra le grida di quelle maladette parti che si sbudellavano in istrada.

Le parti?

Duccio: Ma sì; quella volta si dicevano Tolomei e Salimbeni, come in addietro Guelfi e Ghibellini… Avete ancora le parti, o postero?

Temo di sì, maestro.

Duccio: Peggio per voi. Addio.

Aspetti un poco, maestro. I suoi figli da che parte stavano?

Duccio: Da nessuna! Avevano preso esempio da me.

Lei infatti aveva rifiutato di giurare fedeltà al Capitano del Popolo e di andar soldato in Maremma.

Duccio: Sì, a prendermi la malaria o un colpo di mazza volterrana in capo! E perché? Per difendere l’argento di Montieri a pro’ di messer Salimbeni, che appena mi calcolava per prossimo? Pagai la multa. Mandarmi in esilio non potevano: Firenze aveva Giotto e Cimabue, Siena solo Duccio. Tutti gli altri non contavano un fico.

Maestro, lei andò davvero a Parigi nel 1296? Ha esercitato le arti magiche? Faceva debiti con gli usurai?

Duccio: Codesti non sono fatti tua, o postero indiscreto! Pagai multe e interessi, e feci penitenzia in cenere e sacco.

Ha conosciuto Dante? Alla scuola di Cimabue andava d’accordo con Giotto?

Duccio: Postero, tu m’hai fràdicio. Vàttene con Dio.

Coro: L’uom non può sua ventura prolungare/ né far più brieve, ch’ordinato sia;/ ond’i’ mi credo tener questa via,/ di lasciar la natura lavorare. Qualunque ben si fa, naturalmente/ nasce d’Amor come del fiore el frutto/ ché Amore fa l’omo essere valente…

Carlo Vitali

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