Vicenza – Al Teatro Olimpico va in scena la Passione secondo Matteo

Nella chiesa di San Tommaso a Lipsia, dove fin che visse il suo autore la Passione secondo Matteo fu eseguita tre volte (1727, 1736 e 1742), era possibile vedere gli esecutori vocali e strumentali, distribuiti su due cantorie, soltanto da poche posizioni fra i banchi – riservate ai più abbienti. Per la maggior parte dei fedeli, questa musica così straordinariamente umana e drammatica era per così dire “disincarnata”. Scendeva dall’alto. Solo a partire dalla storica “riesumazione” berlinese del capolavoro per mano di Felix Mendelssohn, avvenuta un secolo dopo (1829), la Grande Passione ha cominciato la sua vita concertistica “normale”, che prosegue incessantemente ai giorni nostri. Svelate alla vista le grandiose compagini degli esecutori (due orchestre, due cori, un folto numero di solisti, un terzo coro all’inizio e alla fine), perché il più delle volte poste di fronte al pubblico (in chiesa o a teatro), da quasi due secoli questa musica compie ogni volta il miracolo non solo di “autoaffermarsi”, ma di farlo in modo quasi sempre distantissimo da ogni forma di teatralità, di utilizzo scenico dello spazio.

In questa direzione, tuttavia, la condurrebbero non solo e non tanto la drammaticità del “plot” evangelico, quanto la stessa architettura musicale ideata da Sebastian Bach: un grandioso monumento nel quale la preghiera cantata (i Corali) sta fianco a fianco con una prodigiosa collana di Arie di stile prettamente operistico, ricchissime anche nello strumentale, ricondotte all’edificante dimensione di una meditazione spirituale sugli avvenimenti. Questi ultimi sono l’oggetto del racconto evangelico, straripante di una forza comunicativa che vive fra la parola e il canto recitativo, uno funzione dell’altra. Infine, proprio come in un melodramma, spesso altri personaggi intervengono e dialogano fra loro e con il popolo ebraico, feroce motore primo del sacrificio.

Per questa sua insita potenza drammatica, “mettere in scena” la Passione (questa, come pure quella secondo San Giovanni) è diventata una sfida affrontata sempre più spesso. L’ha voluta raccogliere anche Margherita Dalla Vecchia, che dopo aver iniziato con successo il suo progetto-Passione nella primavera del 2016, e dopo averlo portato in versione rigorosamente oratoriale per chiese e teatri da Cremona a Borca di Cadore, da Verona a Vicenza (teatro Comunale, direttrice Isolde Kittel-Zerer) e a Venezia, l’ha proposto anche al Teatro Olimpico per il festival Conversazioni 2017, in un’edizione questa volta dotata di “coordinamento scenico”.

I tratti teatrali dell’esecuzione – certo anche per la ristrettezza dello spazio, quasi tutto occupato da una compagine orchestrale-corale di una cinquantina di elementi – sono apparsi condotti secondo una stilizzazione misurata, spesso appena accennata. I movimenti scenici erano in pratica solo quelli dei solisti nelle Arie, necessari del resto per farli uscire dalle file dei due cori dei quali erano parte integrante, con scelta filologicamente pertinente. Gestualità improntata all’estetica degli “affetti”, comunque oltre l’immobilità oratoriale; stole rosse – il colore del sangue – per tutti gli interpreti vocali, coristi o solisti; leggere sottolineature di atmosfera espressiva e qualche effetto di luce, con un gioco di rispecchiamento fra i cantanti e le statue della “frons scenae” e qualche accentuazione illuminotecnica dei momenti topici (la cattura del Cristo, la sua morte) non priva di ingenuità.

Di fatto, la serata non ha fatto spettacolo nel senso abituale del termine, ma non è stata nemmeno un concerto tradizionale. Che poi al suo interno ci fosse una trama di sofisticati e per molti aspetti esoterici simbolismi, come si legge in una nota sul programma di sala, non sapremmo dire, ma è questione che lascia indifferenti, perché non sono gli aspetti di opera “reservata” della Passione (numerologia, formule matematiche, cabalistica e chi più ne ha più ne metta) quelli che sempre affascinano gli ascoltatori nella realtà viva di ogni esecuzione. Né le astratte e un po’ sterili elucubrazioni musicologiche trasferite sul piano di una presunta “corrispondenza” fra Bach e Palladio-Scamozzi aiutano a capire meglio quello che un grande interprete come il direttore John Eliot Gardiner ha definito il “fascino inesplicabile” di questa musica. Che vive sull’effetto che fa, non su quello che ci sta sotto.

Dal punto di vista musicale, l’esecuzione è stata apprezzabile specialmente per vivacità drammatica, anche se non è mancato qualche calo di tensione, specie nella seconda parte. Margherita Dalla Vecchia ha diretto i complessi del Teatro Armonico con energia e passione competenti quanto “studiate”, impetuosamente partecipe con il suo gesto morbido ed evocativo. La sua Passione secondo Matteo ha come punto caratterizzante la qualità timbrica e stilistica dello strumentale, che si dispiega anche grazie a un fraseggio duttile e dalle suggestive articolazioni dinamiche, con tempi incisivi e a tratti perfino concitati. Efficaci, di ottimo colore, qua e là non precisissimi i due cori, specie verso la fine; impeccabili i soprani in ripieno, che hanno iniziato cantando nelle logge sopra la gradinata dell’Olimpico e hanno concluso davanti al palcoscenico.

L’Evangelista era Marcus Elsäßer, raffinato vocalista dalle molteplici sfumature, che ha dato piena sostanza drammatica alla narrazione con multiforme gamma espressiva. Non altrettanto convincente Christian Palm nel ruolo di Gesù, perché timbricamente “leggero” e manierato nella linea di canto, che si sarebbe apprezzata ben altrimenti coinvolgente. Nel folto manipolo degli altri solisti, è piaciuto il contraltista spagnolo Alberto Miguélez Rouco che ha bel colore e lo uso con molta proprietà di stile. Peccato che Dalla Vecchia non gli abbia affidato qualche Aria in più, compresa la celebre Erbarme dich con violino solista, un po’ il simbolo della Passione secondo Matteo insieme con il tema di Corale che torna reiteratamente nel corso del dramma. Quel pezzo di sommo patetismo, come tutti gli altri per contralto che infiorano la seconda parte, è stato affidato ad Anne-Beke Sontag, musicale e appropriata ma di colore meno affascinante. Fra gli altri, in particolare positivi il baritono Alberto Spadarotto, il tenore Klemens Mölkner, i soprani Maria Clara Maitzegui e Karin Selva. Non altrettanto incisivi, perché attenti ma generici nella linea di canto, invece, i bassi Guglielmo Buonsanti, Giovanni Florian e Yiannis Vassilikias ai quali erano affidate le parole di Pilato, Giuda e Pietro.

Pubblico numeroso all’Olimpico nelle due repliche. Alla fine, vivo successo per tutti.

Cesare Galla

(Vicenza, 30 settembre 2017)

La locandina

Direzione e coordinamento scenico Margherita Dalla Vecchia
Tenore (Evangelista) Marcus Elsäßer
Basso (Cristo) Roman Grübner
 
Il Teatro Armonico
Doppio coro, soprani in ripieno, doppia orchestra barocca

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