Filippo Gorini in dialogo con Benedetta Saglietti
L’exploit di Filippo Gorini nel mondo della musica è avvenuto con la vittoria della celebre International Telekom Beethoven Competition Bonn (2015, primo premio, premio del pubblico e premio Beethoven-Haus), cui seguì l’incisione nel 2017 delle Variazioni Diabelli pubblicate per Alpha Classics. Sospettando una comune affinità elettiva beethoveniana, lo incontro a Ravenna in occasione del suo recital alla Rocca Brancaleone, in una chiacchierata informale che nasce come proseguo di una conversazione svoltasi su Facebook con Alexander Lonquich e da quella prende le mosse.
- Tuoi modelli di riferimento nell’interpretazione pianistica? Quali sono?
Più passa il tempo, più allargo il mio orizzonte di ascolto e la scelta degli interpreti da cui traggo ispirazione. Fondamentali per me: Pollini, sono letteralmente cresciuto ascoltandolo, Brendel, e per altri versi Richter e Edwin Fischer.
- Già! Fischer era non solo un pianista fantastico, ma anche un bravo saggista (autore de Le sonate per pianoforte di Ludwig van Beethoven: guida per gli studiosi e gli amatori di musica) e forse questo aspetto è oggi meno noto. Gli interpreti che mi hai indicato appartengono a diverse scuole, provenienze geografiche, generazioni. Ora, azzardo: come si superano i propri modelli? (Lo vedo pensieroso). Una certa distanza ci separa sia da Richter e sia da Pollini (e un’altra ancora separa il Pollini di oggi da quello degli anni ‘60/’70) e un’interprete di oggi credo prenda le misure del passato per offrire un’immagine del presente. È così?
Da questi pianisti, come da molti altri, cerco di ereditare dei valori. Morali, direi. La fedeltà al testo, l’umiltà verso il compositore, la serietà nella preparazione e, infine, un tipo di approccio alla musica sincero in cui il pianista si mette in gioco di persona, senza finzioni. Il tempo muta le scelte interpretative e il gusto; ma quel che andrebbe preservato, secondo me, è soprattutto il tipo di rapporto con i compositori, la partitura e non con la singola scelta interpretativa. Quest’ultima va messa in dialogo con la cultura di oggi, coi ritmi, la scienza e la tecnologia odierna che hanno cambiato il modo di vivere e anche di ascoltare la musica. Quindi, se uno oggi suonasse esattamente come Wilhelm Kempff diverrebbe una finzione, anche se si potesse copiarlo esattamente nel minimo dettaglio, alla fine, non sarebbe grande arte…
- L’interpretazione è figlia del suo tempo, no? Se un interprete fingesse di essere contemporaneo di Kempff realizzerebbe un falso storico… Invece, hai citato Alfred Brendel. Come lo hai conosciuto? Mi incuriosì molto una vostra foto, che avevo visto nel 2017 sul tuo profilo Facebook (Brendel era arrivato apposta per assistere a un concerto di Gorini agli Amici della musica di Padova) e vorrei ascoltare la storia che c’è dietro. Soprattutto, mi è sembrato di intravedere un’amicizia, qualcosa di più di un rapporto professionale…
Nel 2016, quando avevo appena vinto il Concorso di Bonn, in un piccolo tour di concerti in Germania nel quale avevo suonato le Diabelli in sala c’era per caso Maria Maino, presente per una conferenza sulle Vie di Mozart. Fu lei a segnalarmi a Brendel facendogli ascoltare l’esecuzione di quella sera. Così ricevetti da Brendel una mail. Ricordo che era aprile e pensavo a uno scherzo.
(rido. Anche io penso che sia uno scherzo quel che sto per raccontargli….)
Con una nota umoristica, Brendel mi scriveva: “se non è di troppo disturbo, avrei piacere di lavorare con te”.
- Non ci crederai! Nel 2014 ho recensito sul mio blog il suo Abbecedario di un pianista (Adelphi), ho stampato una copia della recensione, gliel’ho portata al Salone del libro, dimenticando di lasciargli il mio biglietto da visita. Qualche giorno dopo Brendel ha compilato il form contatti sul mio sito (!) e mi ha ringraziata con una mail molto gentile. All’epoca recensivo libri da sette anni e devo ammettere che non ci sono stati molti altri autori così riconoscenti. Accantonando ora il piano personale, descrivimi com’è lavorare con lui al pianoforte…
Abbiamo messo alla prova le Diabelli! Allo strumento diventa un’altra persona: molto esigente, anzitutto, perché lui è così con se stesso e quindi anche con gli altri. Non è una forzatura, è estremamente preciso in ciò che desidera, non abbandona mai la sua idea che, del resto, ha costruito in più di sessant’anni di carriera. Soprattutto è importante la chiarezza con cui espone il suo pensiero, la sua idea interpretativa, con cui critica e come, a livello tecnico, ti fa capire esattamente come suonare.
- E te lo mostra, anche?
Sì, certo, talora cantando.
- Essendo Brendel anche uno scrittore (e avendolo ascoltato dal vivo nelle sue lezioni concerto a Salisburgo) presumo che le sue parole siano tagliate su misura…
Il suo inglese è estremamente ricco: ha sempre la parola perfetta per descrivere ciò che vuole. Non dimentico ad esempio quando mi fece notare che un passaggio suonava perfunctory (frettoloso, sbrigativo, un termine meno comune di superficial).
- Quindi, lessico preciso e difesa della propria idea…
Sì, a volte ci siamo trovati maggiormente d’accordo, lavorando con facilità; altre volte meno perché anch’io sono abbastanza testardo… un pensiero musicale lo si costruisce con non poco sforzo e ripensarlo da capo è una sfida.
- Eppure, questa divergenza è un plus, no? La relazione maestro-allievo che funziona non è forse quella di due che partendo da punti di vita molto lontani, uno forte dell’esperienza sedimentata di tutta una carriera, l’altro con la freschezza della propria preparazione, si trovano in un crocevia nel quale s’incontrano, offrendosi visioni che li arricchiscono entrambi, valorizzando le reciproche differenze? In quel punto di incontro, tuttavia, l’allievo non può, non deve non difendere la propria idea rischiando di ridimensionare la sua identità, di farsi plasmare. Pena il fallimento della relazione. Che ne dici?
Il mio rapporto con Brendel è estremamente prezioso. Fin dall’inizio non mi ha mai fatto sentire sopraffatto, ma valorizzato. Mi ha messo a mio agio e non ho mai pensato di perdere la sua stima o appoggio, ho sempre avuto la libertà di proporre e di chiedere. È un ascoltatore molto severo.
- Parlando di Beethoven: a cosa servono gli anniversari (duecentocinquantesimo anniversario della nascita)?
Per un pianista sono un’occasione per focalizzare l’attenzione su quell’autore, ma con Beethoven non ce n’è ovviamente bisogno. Ai grandi che hanno fatto la storia della musica però bisogna sempre tornare. La pandemia ha bloccato un po’ tutte le celebrazioni… come interprete nell’anno beethoveniano ho fatto uscire il mio ultimo album (opp. 106 e 111).
- Tu hai legato il tuo nome a Beethoven grazie alla vincita del concorso di Bonn, hai inciso due dischi beethoveniani, interpreti questa sera a Ravenna una sua Sonata (la 111 preceduta dalla Sonata in sol maggiore op.78 D 894 Fantasia di Schubert), quindi sei entrato in “casa Beethoven” dalla porta principale. A volte però ho la sensazione che esista un “tunnel beethoveniano” quando si crea un’associazione spontanea tra un dato interprete e quel compositore. Beethoven può essere un po’ ingombrante (gli racconto di aver scritto un libro sull’iconografia beethoveniana e di essermi tornata a occuparmi di lui nel mio ultimo libro La Quinta Sinfonia di Beethoven recensita da E.T.A. Hoffmann e che i lettori tendono a legarmi a quel nome), non trovi?
Come tutte le etichette anche quella di “interprete beethoveniano” è un po’ limitante. Un’altra che oggi si appioppa troppo velocemente è, a mio avviso, pianista dedito alla musica contemporanea. Ho studiato nei miei anni di formazione un repertorio molto vario e ho capito dove ottenevo di più con meno sforzo, con quali autori avevo piacere di trascorrere il mio tempo e ciò che volevo approfondire sempre di più e cosa invece preferivo non suonare. L’autore su cui sentivo di aver lavorato meglio era Beethoven. Quando guardai il repertorio del concorso di Bonn, mi dissi che faceva davvero per me. La preparazione è stata entusiasmante: è durata circa otto mesi. Su circa tre ore del repertorio avevo già lavorato negli anni precedenti, ma bisognava ancora perfezionare lo studio, alcuni brani erano nuovi, come quelli di Schönberg e Bartók e infine non avevo ancora affrontato un Concerto per pianoforte e orchestra. Bellissimo è stato avere cinquecento persone in sala e suonare esattamente come a concerto. Le prove duravano tutte almeno quarantacinque minuti. Non so come affronterei una commissione composta da poche persone e avendo la possibilità di suonare solo per un tempo limitato. A partire dalla prima prova (Preludio e fuga di Bach, una delle ultime Sonate di Beethoven, un’altra opera beethoveniana) credo che la Telekom Beethoven Competition Bonn dia la possibilità di fornire all’interprete un’immagine molto chiara di sé.
- Quindi, quali saranno le tue prossime mosse?
In questi anni ho eseguito molto anche Schumann, Brahms e Schubert. E anche musica moderna e contemporanea. Per me l’altro autore d’elezione è Bach: durante la quarantena, in questa forzata pausa di quattro mesi, ho approfondito l’Arte della fuga. (NdA, Il progetto sarà completato nel 2021
- Igor Levit aveva lanciato una provocazione: “c’è questo atteggiamento secondo cui dovresti aspettare di avere 65 anni e aver visto la vita, il mondo e la sofferenza prima di poterti accostare al tardo Beethoven” (citata da Alberto Nortarbartolo su Internazionale). Chissà a chi si riferiva…
Ricordo che Schiff disse una volta che i pianisti che sopporta di meno sono quelli che incidono le Variazioni Diabelli in giovane età (ride)…
- Beh, allora è giunto il momento di difenderti, anche se basterebbe la sola incisione a parlare…
Ho fatto delle scelte in modo pragmatico, senza pormi dei limiti. Ho continuato il mio studio e il tempo alla musica che amo maggiormente, nella speranza di costruirmi come pianista attraverso di essa…
- Perché proprio le Diabelli?
La storia è molto particolare. Sono stato coinvolto in un incidente d’auto, mi sono fratturato una vertebra e ho dovuto tenere il busto per quaranta giorni, senza la possibilità di stare seduto o in piedi per più di mezz’ora. In quei giorni potevo trascorrere mezz’ora al pianoforte e leggevo le Diabelli. L’opera mi incuriosiva moltissimo, sentivo di comprenderla non ancora come avrei voluto e desideravo studiarla… e così, otto mesi dopo le ho suonate al mio diploma. La mia risposta è soltanto: perché no?
- Niente da obiettare!
Naturalmente questa è oggi è l’interpretazione di un pianista venticinquenne, più avanti sarà quella di un trentenne e così via, tutte mostrano aspetti diversi di chi le suona, ma finché l’interpretazione nasce da uno sforzo sincero, con attenzione al testo e rispetto per le intenzioni del compositore, perché no? Che dobbiamo censurare? Uno dei risultati ottenuti col mio primo disco è stato quello di far ascoltare le Variazioni a persone che non le conoscevano, avvicinandoli a un’opera complessa. Ho tenuto ad esempio concerti gratuiti nel liceo che ho frequentato in Brianza, dove studenti e genitori che non avevano mai frequentato prima una sala da concerto hanno ascoltato la Sonata op. 106. Avevo proposto il Sacre e la 106, introducendo i brani prima dell’ascolto: il risultato è che tanti ne sono stati entusiasti.
- Non bisognerebbe nutrire il pubblico coi “bocconcini” di musica… (neanche i bambini!), anche se certo non inizierei da una Sinfonia di Mahler…
Come ai bambini piccoli non faresti conoscere di primo acchito il cinema di Tarkovskij, così è con la musica. Puoi anche cominciare da Wagner, magari in più puntate… questo non significa però offrire riduzioni o pezzetti slegati. Così da piccolo guardavo le opere liriche in dvd e avevo una passione per le opere di Shakespeare in lingua originale con i sottotitoli (ho vissuto una parte della mia infanzia in Inghilterra), mi divertiva questo inglese antico, una lingua strana, sembrava quasi inventata… più entusiasmante che difficile!
- Cosa volevi fare da grande?
Quando?
- Alle elementari!
Lo scrittore prima, il regista poi…
- Quando hai cominciato a voler fare seriamente il pianista?
Verso i dodici anni. Prima avrei desiderato studiare la matematica (i miei genitori sono fisici, mio fratello maggiore è matematico), ma col passare del tempo mi sono accorto che potevo stare tranquillamente un mese senza pensare alla matematica senza soffrirne, ma rimanere una settimana senza pianoforte era per me fonte di dolore. Se non avessi fatto il musicista sarei stato probabilmente molto più triste.
- Una scelta di campo che dà un’impronta indelebile alla tua educazione, vero? Sia che tu diventi pianista sia che nella vita tu finisca per dedicarti ad altro, hai trascorso buona parte della tua giovinezza a contatto con qualcosa che ti regala una certa forma mentale…
Studiare bene la musica e aver la possibilità di studiare in un buon liceo credo è stata una grande fortuna, sono due patrimoni a cui mi auguro tutti possano avere accesso.
Benedetta Saglietti
(2 luglio 2020)
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!