«Il Ministero dia più spazio al teatro del futuro». Intervista a Barbara Minghetti

Tra i più importanti organizzatori culturali d’Italia, Barbara Minghetti è direttrice artistica del Macerata Opera Festival, oltre ad essere stata lungamente ai vertici di As.Li.Co. e del Teatro Sociale di Como (con cui sviluppa il progetto Opera Domani e il suo sviluppo in Opera Education) e aver ideato il Festival Verdi Off per il Teatro Regio di Parma. Tutta la sua attività si è distinta per una fortissima attenzione data all’accessibilità e all’inclusività, che nel caso del festival maceratese si manifesta chiaramente nella meravigliosa iniziativa di inclusivOpera. È proprio allo Sferisterio che, in quindici minuti rubati prima della prima del Trovatore, ho modo di rivolgerle le stesse domande che ho rivolto ad Alberto Triola in merito al presente e al futuro della musica in Italia.

  • In quest’anno complesso, alcune istituzioni coraggiose hanno scelto comunque di tenere vive le loro programmazioni, tra cui il Macerata Opera Festival. Perché?

Il nostro impegno, il nostro lavoro, è fare spettacolo. Quando è scattato il lockdown abbiamo rispettato le regole e abbiamo chiuso tutto, ma appena abbiamo intravisto la possibilità di aprirci e ricominciare a fare, abbiamo deciso che dovevamo esserci. Bisogna dire che in questa scelta abbiamo avuto alle spalle il consiglio di amministrazione del MOF e che la città di Macerata ci ha sostenuto molto, così come il pubblico che non ha cancellato le prenotazioni e gli artisti stessi, per cui questi mesi sono stati difficilissimi, così come per i tecnici e tutti coloro che hanno lavori stagionali. È anche per loro che abbiamo deciso di farlo. Non sapevamo però bene in che forma: sapevamo che non avremmo potuto fare tre produzioni, quindi abbiamo scelto di tenere Don Giovanni come unica produzione scenica vera e propria e proporre Trovatore in forma di concerto. È stato complesso, perché su Don Giovanni abbiamo dovuto fare oltre un mese di prova con la fatica del mantenere sempre le distanze, trovare diverse disposizioni per il coro e così via. Tra l’altro era una coproduzione che ha debuttato a Orange, ma qui ha dovuto trovare tutt’altra vita per la situazione. Nel male, almeno abbiamo avuto la fortuna che Davide Livermore non avesse altri impegni e potesse lavorare tutto il mese qui con noi, sul teatro.

  • Dalle sue parole emerge un’idea chiara del ruolo che un’istituzione come lo Sferisterio debba avere, per la città, per il pubblico, per gli artisti, per tutti coloro che vi lavorano. Come si svilupperà in futuro questo ruolo, dopo l’emergenza pandemica?

Realtà come il MOF sono molto diverse da altre istituzioni: questo è un festival, tra l’altro un festival con uno spazio enorme da riempire, quindi alcune caratteristiche andranno mantenute anche in futuro per avere una sostenibilità economica. Un festival come questo deve sperare e puntare al ritorno ad una maggiore normalità, con turisti, gente da fuori, gruppi. Altra cosa, invece, sono i teatri e gli enti lirici. Su questo io credo che ci sia, nel male, un’opportunità e che tutti insieme rifletteremo e saremo più etici, più insieme, anche più coraggiosi, sia noi che organizziamo cultura, sia il Ministero.

  • In che senso?

Credo che il format della stagione, con le regole cui (giustamente!) dobbiamo attenerci per ricevere i contributi ministeriali, sia eccessivamente restrittivo. Penso serva invece un lavoro congiunto, noi insieme al Ministero, per prendere in mano la situazione e iniziare a comprendere un teatro musicale nuovo, foermat di spettacoli che escono e poi rientrano nel teatro, maggiore spazio per programmare con creatività, trovando idee più aperte, più multidisciplinari. Questo secondo me è molto, molto importante. Però per poterlo fare serve che questi progetti vengano riconosciuti dal Ministero.

  • Se posso provocarla un po’ su questo argomento: perché? Perché bisognerebbe aprirsi e sperimentare nuovi format?

Allora, parli con una che, ahimè, ama lavorare per i progetti, soprattutto quelli di inclusione e partecipativi, ama uscire dal teatro e portare l’opera anche in contesti non teatrali, per poi tornare in teatro ancora. Però penso che questi progetti non debbano più essere collaterali, gli ultimi progetti in fondo, dopo dieci titoli in stagione. Devono essere inseriti con forza nelle stagioni (sempre che di stagioni si potrà parlare), nelle programmazioni. Chiunque si occupi di cultura ha secondo me una responsabilità civica e sociale, credo che la cultura abbia anche la funzione di curare e creare una comunità più allargata, non solo più illuminata. E per farlo bisogna andare oltre ai titoli di repertorio: ci vuole contemporaneo, ci vogliono progetti nuovi. E penso che questo sia in parte bloccato dai parametri ministeriali. Ovvio che senza il Ministero non potrebbe esserci il teatro, ma bisogna aprire un po’ le maglie del contributo e consentire una programmazione più ampia e varia.

  • Lei pensa che questa emergenza possa essere un nuovo inizio? Che con gli anni (perché questi movimenti non si compiono in pochi mesi) si possa davvero andare verso un cambiamento? D’altronde abbiamo visto che proprio per l’emergenza sempre più i teatri si chiudono sul repertorio più standard, per fare cassa.

Ma infatti quello che dico non è che le programmazioni diverse debbano sostituire le stagioni, ma che non possono essere il fanalino di coda di un teatro, devono essere integrate. Facciamo Traviata? Va benissimo, ma dopo quella e prima del titolo successivo c’è un progetto contemporaneo fatto a puntate stile Netflix. Oppure andiamo fuori in mezzo alle persone a seguire progetti partecipativi e poi attiriamo quelle persone in teatro. Insomma, i programmi devono essere più articolati e più di respiro con ciò che succede intorno. Inoltre non credo che questo sia un cambiamento epocale, è già insito nella società, già prima si faceva e all’estero, in alcuni casi, era un processo ben più avanzato che in Italia, ma che comunque anche qui stava emergendo. Il primo stimolo in questa direzione sono stati i musei, che prima di noi hanno dovuto fare un grande cambiamento: da luoghi “museali”, appunto, si sono trasformati in case di cultura, in cui si poteva andare a fare l’aperitivo oppure una sessione di yoga. A Bilbao, per esempio, ci fanno la discoteca di notte, in museo. In questo modo diventano luoghi in cui si vive realmente. Ciò che spero dunque è che questo momento di riflessione possa aiutare a spingere ulteriormente una modalità di pensiero diverso. Che può essere peraltro a supporto dei giovani, io c’ho il pallino della formazione, dalle scuole all’università, dai talenti ai giovani compositori o registi. Coinvolgerli porterebbe nuova energia, nuove modalità.

  • Prima di arrivare alla domanda sui giovani, perché ci arriviamo, vorrei rimanere su questo tema. Perché secondo lei c’è resistenza in Italia a queste programmazioni alternative e integrate? Penso alle vivacissime vite di molte istituzioni europee, mentre qui spesso anche grandi realtà che avrebbero mezzi, solidità e radicamento tendono a rimanere ingessate sui binari classici di tre concerti per produzione, tot repliche per produzione, al massimo l’aperitivo con conferenza introduttiva. Perché?

Ah, fagliela a loro la domanda! (ride) Io ho proprio un altro modo di pensare! Ma qui c’è sempre stato questo timore reverenziale per il repertorio. Se vai all’estero Verdi lo puoi anche fare, che so, a colazione, mentre qui no, qui c’è un rispetto quasi timoroso per la tradizione. Quindi non so davvero… Poi torno sempre al tema della griglia, la fatica di dover rientrare in determinati numeri di giornate, di musicisti, con certe regole, chiaro che poi qualsiasi altra idea va incasellata ed è difficile. Secondo me bisogna smetterla di incasellare, bisogna costruire programmazioni di respiro più ampio, avere il coraggio di andare anche sul leggero. Io a Rotterdam, dieci anni fa!, vidi un’opera per voci ed elettronica in discoteca e fu fighissimo. Dieci anni fa.

  • Mi viene sempre un po’ da pensare questa forma di sentirsi sempre un po’ indietro, un po’ sotto organico, di non aver tempo per progettare qualcosa di nuovo perché c’è sempre una scadenza da dover inseguire.

Come dici tu, poi, è anche una forma mentis. Siamo sempre stati abituati alle stagioni così, quindi andiamo avanti a stagioni così. Devo dire che pian pianino tutti i teatri stanno iniziando ad esplorare nuove iniziative, ma la convinzione solida che queste siano parte della programmazione fondamentale ancora non la sento.

  • Arriviamo ai giovani, dunque. Qui avete un’ampia partecipazione di staff giovane, ma giovani sono spesso anche i musicisti coinvolti. Qual è secondo lei il ruolo che le nuove generazioni di organizzatori, uffici stampa, registi, interpreti e via ancora possono avere in questo momento?

Guarda, dobbiamo solo dar loro gli spazi, perché io ne incontro veramente tanti di giovani, per ogni professione che mi menzioni, che valgono moltissimo. Ho incontrato giovani registi davvero eccezionali e infatti abbiamo lanciato un concorso per la regia di Barbiere, l’anno prossimo. Mi è stato che sono matta, che non troveremo nessuno all’altezza, ma io son sicura che troveremo team meravigliosi e al contrario faremo fatica a scegliere. Ci sono davvero dei ragazzi bravissimi lì fuori. Stesso discorso per lo staff. Quando feci io l’università, filosofia poi master e via discorrendo, c’era molta meno possibilità di formazione specifica, si imparava sul campo, lavorando. Ora arrivano giovani estremamente più preparati, sia culturalmente che tecnicamente, anche in riferimento alle nuove tecnologie. E partono già a mille, bisogna solo dar loro gli spazi. A me, che amo molto lavorare in squadra, ora piacerebbe andare a prendere le idee dai giovani, non essere io a darle: è dai giovani che devono arrivare le risposte al presente e al futuro dell’opera.

Alessandro Tommasi

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