Bergamo: “Save the last dance for me” è la danza della memoria nel vortice dell’abbraccio
Ha preso il via lo scorso 2 agosto in vari luoghi della città di Bergamo il Festival Danza Estate, tradizionalmente in programma tra maggio e luglio, ma, date le contingenze di questo difficile 2020, posticipato tra agosto e settembre per questa sua 32a edizione. Un segnale forte e positivo di ripresa, per una delle città italiane più colpite dal Coronavirus.
La rassegna non tradisce comunque nemmeno quest’anno il suo sguardo internazionale, proponendo le più recenti creazioni nel panorama della danza contemporanea, inedite per il pubblico bergamasco.
Tra queste abbiamo assistito all’ultimo lavoro ideato lo scorso anno da Alessandro Sciarroni, Leone d’Oro alla carriera per la Danza alla Biennale di Venezia 2019, intitolato Save the last dance for me. L’appuntamento è proposto in collaborazione con Festival ORLANDO, rassegna culturale e queer bergamasca, giunta alla sua settima edizione, che ruota attorno al tema del piacere incentrandosi sul corpo e la mente, dove la sensorialità è intesa come strumento fondamentale di conoscenza del mondo. E proprio dall’esperienza sensoriale sembra scaturire il lavoro di Sciarroni.
In primis la vista: come ci saremmo dovuti aspettare, arriviamo, infatti, in una location non convenzionale per la danza, quale il cuore dell’Accademia Carrara di Bergamo. Più precisamente veniamo guidati nella cinquecentesca sala del Moroni, dove austeri ritratti osservano gli spettatori e gli insoliti accadimenti moltiplicando il pubblico. In circa una trentina di spettatori in carne ed ossa ci accomodiamo su due file lungo tutto il perimetro della sala, in attesa della performance, e qui arriva il suono: il ritmo delle percussioni amplificato dal subwoofer entra in ciascun astante e subito c’è chi, come la sottoscritta, non può fare a meno di picchiettare un paio di dita sulle gambe incrociate. La cantilena ritmica è travolgente, quasi vorresti chiudere gli occhi e abbandonarti alla cadenza, ma ecco che si fanno avanti i due danzatori, Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini, tra i pochissimi a padroneggiare i passi della Polka a Chinéin, la Polka Chinata, ballo popolare bolognese di inizio Novecento, ormai oggi pressoché sconosciuto.
Seguendo il loro incedere ci si accorge di un motivo sul pavimento che circoscrive la pista: un rombo inscritto in un quadrato, che detterà i limiti della coreografia. I due prendono posizione, tenendosi per mano, come fossero lì per caso. Ci si aspetterebbe, a questo punto, che la musica – firmata da Aurora Bauzà e Pere Jou – cambiasse in qualcosa di più tradizionale, folkloristico, come un organino o una fisarmonica, e invece persiste nel suo ritmo binario e, anzi, va in crescendo con l’aggiunta di una linea melodica. I due attendono un poco, poi il tatto li guida alla ricerca dell’abbraccio perfetto: la giusta stretta delle mani, la postura delle gambe, del braccio che avvolge, delle spalle specchiate. E si parte, in maniera stridente, quasi. La musica sembra ribellarsi alla coreografia di questa danza “filuzziana”, così come sono chiamati i tre balli di liscio – valzer, mazurka e polka – praticati a Bologna e provincia. Ma dopo i primi giri di riscaldamento, si crea l’accordo e via per 20 densi minuti un vorticare di figure, tra giri e saltelli, assolutamente ammaliante, come il sorriso dei due danzatori che instilla gioia e coinvolgimento tra il pubblico. La fisicità che questo ballo richiede, con diversi momenti chinati, appunto, e con il “frullone” finale (una vorticosa piroetta di coppia alla massima velocità, quasi da pattinatori sul ghiaccio), giustifica il fatto di essere storicamente praticato da una coppia maschile, senza contare la sua evoluzione che ci porta al secondo dopoguerra, dove gli uomini si ritrovavano la sera sotto i portici del centro felsineo mentre le donne erano impegnate al focolare domestico. Una prova di energia, una lotta di resistenza fisica per una danza dalle radici profonde che va dal macro al micro, partendo dal Centro Europa per arrivare alla sua localissima declinazione bolognese.
Questa operazione di Sciarroni è un vero salvataggio, quasi in extremis, perché si contano sulle dita di una mano, oggi, i danzatori di questo ballo. È, come ha dichiarato il coreografo stesso in occasione di un’intervista Rai, prendersi cura di qualcosa di fragile, come questa eredità popolare che se non coltivata può scomparire da un momento all’altro. La sua è quindi un’operazione fondamentale di recupero storico e una riflessione sulla trasmissione della memoria e sul ruolo della danza, aedo del nuovo millennio chiamato a muoversi sul confine tra tradizione e contemporaneo.
A conclusione della performance, alle percussioni ritornate sole si unisce il respiro affannato dei danzatori, che persistono, per un attimo anche a musica finita, nei loro passi stretti e nei giri a volte scomposti, facendosi essi stessi ritmo. Scrosciano gli applausi e il bis ci regala il classico pezzo da balera su cui il pubblico tutto non può esimersi dal battere le mani a tempo (o quasi) e le evoluzioni dei due depositari di questa danza antica e popolare sembrano attingere nuova forza vitale e ritrovare la loro genuina dimensione di festa condivisa.
Tra i prossimi appuntamenti della rassegna bergamasca, ricordiamo lunedì 10 agosto la performance Perpendicolare, coprodotta dall’Associazione Immaginare Orlando e Festival Danza Estate: un innesto multidisciplinare inusuale tra il mondo musicale di Cristina Donà e la danza del coreografo Daniele Ninarello, plasmati e cuciti insieme dal musicista e compositore Saverio Lanza. I successivi spettacoli rimandano poi a settembre.
Tania Cefis
(6 agosto 2020)
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