Bergamo: Faliero racconta lo sperdimento del teatro
Secondo ricci/forte, la Venezia di Marino Faliero, unico doge finito in mano al boia nella storia della Serenissima, è un non-luogo popolato di incubi. Qualcosa che assomiglia molto, concettualmente, a ciò che sono diventati oggi i teatri, chiusi al pubblico nell’infuriare della pandemia. Nella visione della “firma” che – vedi caso – dirigerà la veneziana Biennale Teatro nei prossimi quattro anni, una specie di vertiginoso labirinto in acciaio alla Piranesi, sotto al quale c’è solo il vuoto. Un groviglio su diversi livelli di scalette, praticabili, passerelle e piattaforme, che sembra cambiare geometria ogni volta che cambia la prospettiva degli unici spettatori ammessi alla visione, quelli davanti a uno schermo di computer o di televisione. Per forza di cose legati anche alle scelte della regia dello streaming, nel suo passare da una videocamera all’altra, da un primo piano a un campo lungo. Passerelle e scale fanno parte anche dei servizi di palcoscenico e normalmente non si vedono mai, ma adesso non siamo nella normalità, anzi siamo in una situazione di sconcertante rovesciamento e rispecchiamento che questo allestimento descrive con efficacia pari alla fantasia dell’invenzione.
Così, il Marino Faliero inaugurale del Donizetti Opera a Bergamo, firmato per la regia da Stefano Ricci (la scenografia è di Marco Rossi), è uno spettacolo che nel dipanare la storia di un doge trecentesco finito sul patibolo per avere complottato contro se stesso, spinto da motivi passionali, racconta in realtà il senso del teatro nel cuore della crisi. E ci riesce in virtù delle sue riuscite – che sono notevoli – come pure dei suoi punti critici – che non mancano. Il principale di questi ultimi è una non aggirabile conseguenza dell’emergenza. Marino Faliero è opera di larga e importante partecipazione corale, ma in scena – nell’installazione – il coro non ci potrebbe stare neanche se si volesse, per le ferree regole del distanziamento. Infatti sta sul palcoscenico, in fondo in fondo, dietro a una parete di sicurezza in plexiglass, il più delle volte (e a questo punto la scelta è inevitabile) anche “nascosto”, talvolta messo a cantare nella semi-oscurità, in corrispondenza o meno con la situazione scenica. L’anormalità della situazione è sottolineata dalla disposizione dell’orchestra e del direttore. Riccardo Frizza ha a disposizione un doppio leggio, perché gli archi dell’ottima formazione strumentale del Donizetti Opera, tutti rigorosamente con la mascherina, come il direttore, gli stanno di fronte, ma i legni e gli ottoni sono alle sue spalle, a loro volta dietro a una parete di plexiglass. E talvolta, quando la partitura lo richiede, il maestro fa mezzo giro su se stesso e dirige i fiati (e anche il coro) dando le spalle al resto dell’orchestra e al luogo dove si svolge l’azione.
Dopodiché, lo spettacolo è condotto secondo coordinate teatrali che si possono definire tradizionali, pur nella particolarità dello spazio scenico. Tradizionali sono i mimi che “trapuntano” l’azione a volte in maniera un po’ troppo insistita o troppo seguita dalla regia video (movimenti coreografici di Marta Bevilacqua) ma che hanno l’importante funzione di sottolineare la lettura di ricci/forte: Marino Faliero come storia senza tempo, quasi distopica, il cui lato politico è in realtà comunque individuale e soggettivo. E opera nella quale va in scena un’umanità immersa in una attualissima crisi sociale e antropologica e in un vuoto culturale che viene descritto bene anche dai costumi “televisivi”, a tratti clowneschi, di Gianluca Sbicca. Così facendo, Ricci chiarisce quanto sia lontana da un ruolo “risorgimentale” la partitura di Donizetti, la sua prima per Parigi (marzo 1835, sei mesi prima di Lucia di Lammermoor) e sottolinea quanto si fosse sbagliato Mazzini, nell’esaltare quest’opera appunto in chiave politica. Ma questo è un equivoco che le vicende operistiche italiane dell’Ottocento avevano già spazzato via rapidamente.
Poi, il rapporto fra le immagini e quello che si è sentito non sempre è apparso calibrato a dovere, talvolta è parso un po’ troppo incline al linguaggio delle serie televisive, del resto spesso grandi “interpreti” del vuoto sociale che qui si vuole illustrare. Ma ci sono almeno due momenti in cui lo spettacolo è apparso avvincente, non a caso quando è stata fatta la scelta della sottrazione, della semplificazione e del dialogo dei personaggi con tutti gli elementi a vario titolo “scenici” dentro al teatro Donizetti. Peraltro in corrispondenza di due dei momenti più alti della partitura. Intendiamo lo straordinario duetto basso-baritono tra il doge Faliero e il capo dell’Arsenale Israele Bertucci, nel corso del primo atto: un percorso psicologico magnificamente articolato che conduce alla decisione di dare vita alla cospirazione fatale; e il duetto finale tra Faliero e la moglie Elena prima dell’esecuzione capitale, quando lui scopre non solo di essere stato in effetti tradito, ma di esserlo stato con il proprio nipote, eppure concede alla donna un magnanimo perdono.
In queste due pagine Donizetti costruisce puro teatro per musica a un’altezza che solo Verdi, dopo, riuscirà a raggiungere nuovamente. E lo spettacolo è emozionante nel darne ragione giocando anche su scabri effetti luministici (lighting design Alessandro Carletti), allontanando in campo medio o lungo la visione, regalando il fascinoso sconcerto visuale che inevitabilmente questa sofisticata “installazione per musica” porta con sé.
Dal punto di vista esecutivo, serata di alto livello, nonostante tutte le difficoltà logistiche e secondo tradizione del Donizetti Opera Festival. Riccardo Frizza ha concertato come se si trovasse in una normale buca d’orchestra: misurato, equilibrato e soprattutto preciso, in questo assecondato dal virtuosismo “specifico” dei cantanti, niente affatto agevolati nel vedere il gesto del direttore. Sotto la sua bacchetta, Marino Faliero ha avuto tutto il giusto risalto strumentale (notevole il ruolo del clarinetto) in una lettura basata su una notevole gamma dinamica e una altrettanto notevole varietà ritmica, sottolineata dalla incisiva duttilità dei tempi.
Nella compagnia di canto hanno giganteggiato le due voci gravi. Michele Pertusi (Faliero) è apparso vocalmente in grande spolvero in tutte le zone della tessitura, stilisticamente magistrale, sontuoso nella ricchezza e profondità del fraseggio, particolarmente eloquente nel raffinato risalto dato alla parola. Al suo fianco, ottimo anche il baritono Bogdan Baciu nel ruolo di Israele Bertucci, risolto con sottigliezza espressiva di alto livello e cantabilità fluente, elegante, appassionata. Assai bene si è proposta anche Francesca Dotto, la moglie del doge. Sempre in proficuo controllo la sua gran scena nel terzo atto, a disegnare – con linea di canto assai incisiva e colore scuro di notevole forza drammatica – un’eroina tormentata e senza consolazione tuttavia nell’ambito di una sofisticata consapevolezza stilistica, fuori da ogni eccesso. Un gradino sotto ai tre protagonisti è parso il tenore Michele Angelini, Fernando, che ha facilità a salire in acuto, con frequente uso del falsetto, ma fraseggio generico e colore talvolta tendente a sbiancare. Il tenebroso Steno, motore del dramma con la sua protervia aristocratica, è stato reso con intensità da Christian Federici; precisi ed efficaci gli altri, dall’elegante gondoliere di Giorgio Misseri ad Anaïs Mejías (Irene), e Dave Monaco (Leoni). Impeccabilmente concentrato il coro istruito da Fabio Tartari.
Alla fine, tutti i protagonisti sulle passerelle con i mimi e lo staff di regia: è scattato un lungo applauso, e dietro le mascherine che ciascuno indossava la commozione è parsa evidente.
Cesare Galla
(20 novembre 2020)
La locandina
Direttore | Riccardo Frizza |
Progetto creativo | ricci/forte |
Regia | Stefano Ricci |
Scene | Marco Rossi |
Costumi | Gianluca Sbicca |
Lighting design | Alessandro Carletti |
Coreografie | Marta Bevilacqua |
Personaggi e interpreti: | |
Marino Faliero | Michele Pertusi |
Israele Bertucci | Bogdan Baciu |
Fernando | Michele Angelini |
Elena | Francesca Dotto |
Steno | Christian Federici |
Leoni | Dave Monaco |
Irene | Anaïs Mejías |
Un gondoliere | Giorgio Misseri |
Beltrame | Stefano Gentili |
Pietro | Diego Savini |
Strozzi | Vassily Solodkyy |
Vincenzo | Daniele Lettieri |
Figli d’Israele | Enrico Pertile, Giovanni Dragano, Angelo Lodetti |
Voce di dentro | Piermarco Viñas Mazzoleni |
Performers | Lucia Cinquegrana, Alessandro Hartmann, Pierre-Etienne Morille, Luca Parolin, Sara Paternesi, Alessio Urzetta, Emma Zani |
Orchestra Donizetti Opera | |
Coro Donizetti Opera | |
Maestro del coro | Fabio Tartari |
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