Intervista a Valentina Lisitsa
La pianista ucraina Valentina Lisitsa è un personaggio particolare del mondo musicale internazionale. In molti l’hanno conosciuta attraverso la sua copiosa produzione video, che l’ha resa una delle interpreti più amate di YouTube, ma il suo percorso è costellato di scelte particolari escogitate con furbizia ed intelligenza. Protagonista di un affollatissimo concerto per la Yamaha, la intervisto dopo che la lunga fila di ammiratori ha chiesto il suo tributo in forma di foto e autografi.
- Valentina, sei celebre soprattutto per il repertorio che dalle Sonate di Beethoven va al tardo Romanticismo di un Rachmaninov, ma in base a cosa scegli il tuo repertorio?
Sai, non ho una predilezione per un particolare stile o particolare epoca. Io cerco spesso compositori che possano raggiungere il lato più emotivo del pubblico. Ci sono autori interessanti soprattutto da un punto di vista cerebrale, che sono estremamente apprezzati da un pubblico analitico. In un certo senso io cerco un altro pubblico: per me il complimento migliore è quando qualcuno in platea singhiozza!
Quindi la musica che cerco è soprattutto una musica emozionale, sulla quale gli ascoltatori possano proiettare le loro vite e le loro esperienze. Ad esempio se suoni un brano come la Chiaro di Luna di Beethoven (che poi, è chiamata Chiaro di Luna, ma non ha nulla a che vedere col Chiaro di Luna, anche perché Beethoven stava passando un periodo estremamente difficile della sua vita), le persone che ascoltano non è che pensino alla luna o simile, ma rivivono le proprie esperienze. È qualcosa che succede sempre, anche a me quando suono. Per me è l’unico modo in cui puoi suonare ancora e ancora lo stesso brano in tournée: perché ogni volta è diverso, ogni volta lo vivi in maniera nuova.
Se dovessi dare una definizione, direi che per me la musica è una storia. Non nel senso di scenari, personaggi e azioni, a volte è veramente molto astratto. Ma lasci che le persone scrivano le loro storie, le loro impressioni ed esperienze più personali.
- Cosa ne pensi invece del repertorio contemporaneo o meno eseguito?
In realtà vorrei farlo tutto il tempo, però ci sono certe pressioni difficili da ignorare. Da quando sono in questa industria, a volte mi diventa difficile programmare persino Bach, cosa che sembra sorprendente! Ma dipende dai pubblici. Se vai in Asia, ad esempio in Giappone, Bach va benissimo. Ma in Corea ti guardano già con più sospetto! Questo vale anche per altri compositori, soprattutto i contemporanei. Altro esempio: ho inciso un CD con brani di Philip Glass e con lui funziona che metà pubblico lo adora e metà pubblico lo odia, insomma solo pareri molti forti. Questa cosa la trovo piuttosto pesante. Sai, nessuno direbbe veramente “Ah, io odio Chopin”, qualcuno mal sopporta Liszt o Rachmaninov per diverse ragioni, ma coi contemporanei le opinioni sono veramente pesanti. Non so se riuscirei a sopportarlo, non credo potrei fare la compositrice!
- Qual è dunque il tuo significato di successo come pianista?
Non mi piace pensarmi come una pianista di quelle che va sul palco per farsi guardare e adorare dal pubblico. No, questo capita a molti giovani esecutori e a volte rimangono così per tutta la vita, pensa al vecchio Horowitz! (ride) “Guardami come suono Rachmaninov!” (ride). Mi piacerebbe andare sul palco e poter quasi scomparire per poter dare attenzione al compositore, anche se ovviamente è impossibile farlo del tutto: non posso suonare Rachmaninov esattamente come lo voleva. Persino in chiesa c’è chi ti dà un’interpretazione dei testi sacri. In un certo senso è così, il compositore è Dio e l’interprete ti porta la sua parola.
- Sei riuscita anche a raggiungere un pubblico molto ampio tramite YouTube, comprendendo bene il meccanismo di questa piattaforma. Come compi le scelte di repertorio per il canale?
Quando carico video su YouTube cerco un equilibrio suonando anche brani che non sono super popolari, come ad esempio la Prima Sonata di Shostakovich o persino la Prima di Rachmaninov. C’è anche tanta musica che non posso suonare per ragioni di copyright. Certo, va bene attirarli con la Chiaro di Luna, però li puoi prendere per mano e condurli alle tarde Sonate di Schubert. Per molti dei miei spettatori, posso vederlo dalle statistiche, questo è uno dei primi approcci con la musica classica. Questo porta un sacco di responsabilità, ma anche grandi soddisfazioni quando osservi quanto a lungo riescono ad ascoltare, se poi magari si spostano su altri brani, se ascoltano cose meno popolari. Funzionano molto bene, ad esempio, i brani brevi di Brahms. Non è una cosa scontata, se vai da una qualsiasi casa discografica e dici: “Voglio registrare gli Intermezzi di Brahms”, la loro risposta sarà: “Ma non vende”. Ma è stato sempre così, persino a Backhaus venne detta la stessa cosa! Su YouTube invece va e non solo per la presenza del video, in quanto YouTube ormai si utilizza sempre più come background per ascoltare in streaming.
- Parlando di questioni stilistiche al pianoforte, sembri essere una pianista abbastanza noncurante delle note sporche. Perché questa scelta, in questo mondo musicale sempre più pulito e perfetto?
Quella della pulizia di note è una fissazione sempre più forte nel mondo contemporaneo, ma è secondo causata in gran parte dall’intensivo editing che si opera in fase di post produzione. Non è diverso da quanto accade con Photoshop e la fotografia e le enormi pressioni sulle giovani ragazze per raggiungere certi standard di bellezza irreali. Nella musica credo che il culto delle note perfette sia iniziato intorno agli anni ’70, quando giovani pianisti desiderosi di vincere concorsi hanno iniziato a prendere come riferimento CD, scoprendoli sempre più perfetti. Così ci si uccide pur di riuscire a suonare nella maniera più perfetta possibile, sopprimendo a volte anche l’interpretazione. Nei concorsi questo ha attecchito bene: è molto più facile dare un premio a qualcuno che ha suonato perfettamente, è l’elemento un po’ sportivo dei concorsi. Non mi ci riconosco. Sai uno dei pianisti che mancava il maggior numero di note, Paderewski, era pesantemente criticato dai suoi contemporanei. Ma ci rideva sopra. Arrivava a tenere due o tre concerti al giorno e credi che il pubblico si accorgesse delle note sbagliate? No, non gli interessavano, era la musica che andavano ad ascoltare, non l’infallibilità tecnica costante giunta con l’editing. Penso sia simile a quanto avvenuto con l’industria filmica. Il parallelismo funziona, l’approdo in sala d’incisione fu un po’ come quando gli attori teatrali iniziarono a muoversi dal palcoscenico alla cinepresa. Anche in quel caso c’è molta costruzione e gli attori devono recitare la stessa scena più e più e più volte, finché non è perfetta, sottoponendosi ad ogni sorta di tensione. È arte, ma è un’arte diversa rispetto al performer. Con i social media si completa il cerchio e si ritorna un po’ al punto d’origine. Una volta ai i concerti si suonava e se piacevi, veniva più gente. Anche Paderewski, quando andò a suonare a Londra la prima volta, non lo andò a sentire quasi nessuno. Con i CD è cambiato lentamente il meccanismo. Erano le etichette discografiche a proporti gli artisti, costruendo già il percorso di una star. Si è arrivati anche a quella ricerca del “nuovo Richter”, “il nuovo Horowitz”, in modo da confezionare l’artista al meglio. Questo diventa un problema però quando il pubblico biasima se stesso quando non apprezza un interprete blasonato: se il recital è stato noioso è difficile che il pubblico dia la colpa al musicista, soprattutto se questo viene venduto come un grande artista a priori. Con i social media si è tornati a qualcosa di simile a prima. Se ci riesci, ti costruisci da solo, trovando la tua strada finché non attiri l’attenzione. E solo in quel momento l’industria discografica ti prende. Un po’ com’era una volta!
Alessandro Tommasi
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