Padova, un festival per la musica inquieta: intervista a Marco Angius

Nasce Veneto Contemporanea, un festival organizzato dall’Orchestra di Padova e del Veneto che il Direttore Artistico Marco Angius definito un’esposizione di suoni e linguaggi. Lo incontro negli uffici della Fondazione OPV per parlare del progetto, un chiaro segnale sulla direzione intrapresa dal direttore d’orchestra dei suoi sei anni alla guida della compagine padovana.

  • In ogni comunicazione viene ribadito che questo festival è stato “fortemente voluto da Marco Angius”. Perché?

Ecco, questa è una bella domanda! Innanzitutto perché per fare un nuovo festival di musica contemporanea ci vuole molta forza, ma poi anche perché ne ho sentito l’esigenza, sul territorio mi sembrava mancasse un festival di musica contemporanea italiana. L’altra ragione è che negli ultimi anni l’OPV ha investito molto sulla contemporanea, un investimento confermato dall’uscita l’11 maggio di un nuovo disco con musiche di Nicola Sani in prima mondiale, decisamente non usuale nel panorama italiano. Ma questo festival è anche l’occasione di un bilancio sulla mia gestione dell’Orchestra, con cui il rapporto cominciò proprio con un disco su Dall’Ongaro che poi era il compositore in residenza per l’ultimo anno (prima che la pandemia fermasse tutto) e che ho invitato a concludere Veneto Contemporanea per dare un senso di compiutezza e perché, oltre che compositore, è una figura importante della cultura italiana.

  • È una tendenza piuttosto affermata quella di porre compositori ai vertici della gestione musicale, perché?

Oggi siamo abituati a pensare al compositore come una figura molto specializzata, ma in passato non è stato così, basti pensare a musicisti come Maderna. Credo anzi che un compositore possa svolgere molto bene il ruolo organizzativo in primo luogo perché ha una visione ampia e attuale di ciò che succede a livello nazionale e internazionale. Questo recupero di un compositore a 360°, inserito in un sistema di produzione, ha dei vantaggi ma anche dei rischi ovviamente. Un compositore lavora con una casa editrice, ha un’influenza, ha dei competitor, però nell’ambito della ricerca sperimentale questo rischio è davvero relativo.

  • E com’è nato dunque questo festival?

Volevo un festival che facesse qualcosa di nuovo, con prime esecuzioni, perché non ha senso fare un festival di contemporanea senza prime esecuzioni ovviamente, però non potevamo commissionare un gran numero di lavori sia per questioni economiche, sia perché non sapevamo se il festival si potesse fare fino a poche settimane fa. C’ho riflettuto e ho trovato una soluzione: il Festival è composto quasi interamente da novità, ma queste novità sono brani che in molti casi derivano dal passato, sono brani rimaneggiati, riscoperti da un cassetto, trascritti, corretti, riorchestrati. Il caso di Ambrosini è un esempio: il brano che presenterà è una nuova versione di un brano precedente, un’opera di restauro su se stesso che mi interessava molto. Questo ci permette inoltre anche di lavorare per costruire un repertorio pur offrendo novità, perché il rischio del sistema è che la novità si perda.

  • Questo è uno dei problemi più grandi. Serve sempre il nuovo brano, spesso inserito a forza in un programma un paio di volte e poi abbandonato per sempre. Secondo te come si può evitare questo rischio?

Questo è un problema che riguarda da un lato chi produce la musica, direttori artistici, orchestre, musicisti, dall’altro il pubblico. Il problema primario per un compositore, oggi, è avere un interlocutore interessato, perché il pubblico è diventato una sorta di fantasma e non solo a causa della pandemia. Questa semmai ha complicato ulteriormente introducendo l’uso massiccio di streaming, in cui non riesci a identificare subito il tuo pubblico, è potenzialmente internazionale, si esprime ma al contempo non lo vedi anche quando è numeroso. Tra i compiti di chi opera nel settore musicale, poi, è fondamentale ora programmare musica contemporanea italiana, visto che molti autori non hanno veramente avuto modo di esprimersi da mesi. La scelta di fare un festival di compositori italiani è anche per dare un segnale al nostro territorio e al nostro pubblico. Lo vedo come un dovere etico verso gli artisti del nostro Paese. Poi, per tornare al tema del repertorio, è importante evitare l’ipertrofia della proposta, ossia cercare di inserire quanti più autori in un singolo concerto, perché bisogna dare al pubblico la possibilità di comprendere e riconoscere il linguaggio e lo stile di un compositore. Questo dei linguaggi è una delle questioni centrali, perché se cerchi di non essere consumistici, ossia commerciali, ti porta automaticamente a cercare un pubblico che la vede come te, quindi non il pubblico massificato intercettato dai sistemi di consumo musicale.

  • È possibile rivolgersi al grande pubblico, con le sue voraci abitudini di consumo culturale, mantenendo un’alta qualità artistica?

Certo, è una realtà che esiste, in base anche ai generi. L’idea che il compositore possa incontrare il favore delle masse e al contempo scrivere musica sofistica è un dato di fatto, è avvenuto anche nel pop e nel rock progressivo per esempio. Ci sono poi dei canali comunicativi in cui il successo è raggiungibile più facilmente, come la musica da film, un genere che può piacere o meno, ma che ha una sua dignità indiscutibile. Come interprete però devo dire che amo di più quei lavori in cui posso scavare, esplorare, essere io stesso compositore ed è a questa musica inquieta, questa musica che lavora sul rapporto tra persona e realtà, che implica un’introspezione che ci vogliamo rivolgere con Veneto Contemporanea. Mi pare però che in Italia, quando si parla di musica d’oggi, i rischi che si prendono siano estremamente bassi. Sarà l’effetto della pandemia, ma si è regrediti verso titoli rassicuranti, con tante Traviate, tanto Puccini, in una logica di puro consumo senza ricerca che non trovo molto interessante.

  • Parli di rapporto tra persona e realtà: pensi che la musica contemporanea debba trattare le grandi questioni, anche sociali, di oggi?

Questo del ruolo sociale e politico del compositore, del musicista che incide sulla società, è un problema aperto nel Novecento e tuttora non risolto, ma anzi inserito in una società più liquida che mai. Oggi, che la musica possa cambiare il mondo chiaramente mi sembra visto da una diversa prospettiva. Il ruolo migliore per la musica, secondo me, è quello educativo, ossia mostrare alle persone quanto un pensiero musicale possa portare verso la bellezza, verso l’espressione della parte migliore di noi esseri umani. Inoltre, la musica può sia essere inserita in una società, che astrarsi e mostrare l’alternativa al sistema. Per me la musica è sempre stato qualcosa in cui rifugiarsi, rispetto al mondo.

  • Ritornando a Veneto Contemporanea, in Veneto c’è chiaramente la Biennale Musica di Venezia. Come si relazione questo Festival rispetto alla Biennale, come si distingue questo festival rispetto ad un Festival che ha una tradizione ormai quasi centenaria?

Chiaramente la storia della Biennale parla da sé, mentre qui stiamo mettendo una prima pietra. Con l’OPV abbiamo suonato più volte in Biennale, è un ambiente in cui sono tornato in diversi anni. Credo che le due cose siano ben diverse. Per me Veneto Contemporanea è, appunto, un’esposizione di suoni e linguaggi, un punto di incontro tra esposizione visiva, uditiva e comunicativa e in quest’esposizione è fondamentale il ruolo del passato. Il passato si può accettare o negare. Nella programmazione della Biennale 2021 il passato è ritagliato nella sua identità, separato e indagato come fenomeno storico. Io vorrei evitare di creare categorie storiche, con una distinzione netta. Tra presente e passato c’è un’ambiguità fatta di infiniti dialoghi, un fenomeno di rilettura che c’è sempre stato: non a caso uno dei primi dischi che ho fatto qui a Padova è stato quello con l’Arte della Fuga nella versione di Scherchen, dimostrazione non di un’appropriazione indebita, ma di un fenomeno di attrazione verso il passato ben più complesso. Il presente e il futuro ci spaventano perché sono incerti, ma il passato lo possiamo controllare. Questo nella composizione porta anche a situazioni come al desiderio di Boulez negli anni ’50 di tagliare i ponti. Io credo che oggi, continuare a dividere nettamente musica antica e moderna possa forse essere più semplice, ma non dice nulla sulla realtà. Poi un’altra differenza è appunto l’attenzione data ai compositori italiani. Secondo me bisogna mettere il dito nella piaga e rivolgersi alla realtà italiana, con tutte le sue contraddizioni.

  • Come si sviluppa concretamente questa esposizione, dunque?

Sono partito da Luigi Nono per l’anteprima dell’8 maggio, con Polifonica-Monodia-Ritmica, cioè l’atto di nascita della musica di Nono che viene subito tagliato di oltre la metà da Scherchen. Un’esecuzione pubblica della versione originale, in Italia, non c’è mai stata. Mi piacerebbe che ogni anno si potesse partire da un brano del giovane Luigi Nono per questo festival e qui la consulenza di Veniero Rizzardi è fondamentale, così come la partecipazione di Nuria Schönberg-Nono, che ho definito “un’apparizione” perché per me è proprio una figura mistica, che unisce dei mondi, e che sarà presente in video. Il direttore sarà Filippo Perocco, che è il nostro artista in residenza, partecipando non solo in veste di compositore, ma anche di organista e direttore, sempre per quel discorso del compositore a 360° che facevamo prima. Nel secondo concerto avremo una nuova commissione a Perocco e tre altri autori, Ambrosini, Sani e Francesconi che presentano brani rivisti, rielaborati o corretti e presentati nella nuova veste in quest’occasione. Il 18 maggio sarà poi la volta di Passionis fragmenta di Sciarrino, che presentiamo in prima assoluta nella versione con orchestra, una cantata dal taglio protobarocco con Livia Rado come voce solista: uno tra i brani più visionari e sconvolgenti di Sciarrino, che eseguiremo nell’acustica particolarmente adatta del Palazzo della Ragione a Padova. Il quarto appuntamento, il 31 maggio, vede Pasquale Corrado nel doppio ruolo di compositore e direttore di un proprio brano per violino e orchestra con Francesco D’Orazio, oltre a una prima italiana di Fedele, una prima assoluta di Giovanni Mancuso e la prima della nuova veste editoriale di Fantasia di Castiglioni, realizzata in collaborazione con la Fondazione Cini e Gianmario Borio. L’ultimo appuntamento del Festival sarà un ritratto monografico di Dall’Ongaro, in cui verrà eseguita anche la prima dell’elaborazione per violoncello e archi delle Canzoni siciliane, oltre alla prima assoluta di un brano ritrovato dal compositore in un baule, durante un trasloco. Questo ritrovamento nel baule penso sia un simbolo di questo festival, che mette in discussione il concetto di nuovo e apre verso il nuovo che non è nuovo.

 

  • Chiuderei con un’anticipazione dal tuo nuovo libro, in preparazione!

Sì, è in corso di pubblicazione per il Poligrafo! È un libro un po’ particolare: ho scelto alcune delle opere che ho diretto in questi venti anni, cercando programmi di sala o booklet di CD che avevo realizzato, espandendoli, rielaborandoli e integrandoli con esempi musicali. Il risultato è un viaggio che passa tutto il Novecento, dal 1902 di Pelléas et Mélisande di Debussy fino al Prometeo di Nono e all’ultima produzione di Donatoni. Sono brani che io ho vissuto dall’interno, così da offrire una sorta di controanalisi partendo dal punto di vista del viaggiatore di un mondo sonoro delle opere che non è solo la partitura. La partitura non è l’opera, la partitura è la porta d’accesso dell’opera. Penso possa offrire un punto di vista diverso.

Alessandro Tommasi

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