Verona: l’Aida rivelatoria di Muti

L’aneddoto più bello su Aida è quello del rimborso spese allo spettatore insoddisfatto. Un appassionato di Reggio Emilia scrisse a Verdi di essere andato due volte a Parma per assistere all’opera e di essere rimasto molto deluso, chiedendo per questo che gli venissero restituite le 31 lire e 80 centesimi spese per i viaggi in ferrovia, i posti in teatro e le cene. Il compositore incaricò il suo editore di inviare allo scontento 27 lire e 80 centesimi, chiosando: «Poteva ben cenare a casa sua!». In cambio, volle non solo la ricevuta ma soprattutto un formale impegno a non andare più a sentire le sue opere nuove…

La singolare protesta (citata da Filippo Abbiati nella sua storica monografia verdiana) resta nota più che altro per l’impagabile sottigliezza della replica, ma dà a suo modo anch’essa l’idea del dibattito che l’opera egizia di Verdi suscitò al suo apparire in Italia, poche settimane dopo il debutto al Cairo, avvenuto il 24 dicembre 1871, centocinquant’anni fa. Il termine che girava negli ambienti critici era “wagnerismo”, tanto da far sbottare infastidito il compositore: «Bel risultato dopo 35 anni di carriera finire Imitatore!!!». Né la celebre difesa di Eduard Hanslick, il musicologo tedesco che era un punto di riferimento per tutti gli antiwagneriani («Nell’Aida non v’è una battuta per cui l’italiano vada debitore al tedesco (…) Nell’intera composizione domina, come chiesa invisibile, la legge drammatica, ma il suo capo visibile resta pur sempre la bellezza musicale»), né il successo di pubblico bastarono a rasserenarlo: al proposito Verdi parlava di «noje infinite e disillusioni artistiche grandissime».

La discussione si accendeva sulla sensibilità nuova dimostrata dall’autore nel trattamento armonico e strumentale, e naturalmente sull’impiego di una serie di “letimotive” attraverso i quali gli snodi drammatici dell’opera diventano sostanza musicale anche in orchestra. Ma anche se i segnali di un partecipe interesse a quanto si era andato sviluppando altrove nell’ambito del teatro musicale sono evidenti, quello che appare al centro dell’interesse verdiano non è l’”opera d’arte totale”, ma una rinnovata attenzione all’importanza della “parola scenica” che scolpisce e modella l’azione, e determina essa stessa la drammaturgia.

Nel tornare ad Aida, frequentata varie volte nella prima parte della sua carriera e poi non più avvicinata per una quarantina d’anni prima delle recenti esecuzioni a Salisburgo (2017) e Chicago (2019), Riccardo Muti ha chiarito ieri in Arena – dove il capolavoro egizio ha aperto in forma di concerto la stagione della ripartenza – il suo punto di vista sul presunto “wagnerismo”. La sua visione della questione è naturalmente dalla parte di Verdi, ma poiché in un’esecuzione “oratoriale” la parola scenica è più una categoria estetica e spirituale che un elemento drammatico pratico, la sua attenzione si è concentrata specialmente sui valori del suono in orchestra. Ne è uscita un’Aida di forte connotazione sinfonica, che forse inevitabilmente – il tempo per le prove non basta mai, specialmente dentro all’anfiteatro – è andata mettendo a fuoco le sue caratteristiche man mano che la notte avanzava, raggiungendo il clou nel terzo e nel quarto atto. Un preannuncio si era avuto con le danze nella scena del trionfo, alla fine del secondo atto: esecuzione ricca di colore e densa di sottigliezze nel fraseggio, che partendo dall’ovvio tributo verdiano alla tradizione del grand-opéra francese ha messo a fuoco in maniera esemplare la maturità e l’autonomia del compositore, capace di realizzare in orchestra una scrittura consapevole di quanto accadeva in Germania nell’opera, ma sicuramente autonoma e originale.

Ma è stato nell’atto sul Nilo, il terzo, intimo, notturno e psicologicamente tragico e nel lungo “Trionfo della Morte” – prima oggettivo e poi soggettivo – di cui consiste il quarto atto, che Muti ha concertato in maniera che non si può definire altrimenti che rivelatoria. Perché certi incisi dell’orchestra, certi frammenti suddivisi fra le sezioni – si tratti delle trombe o dei violoncelli – hanno raggiunto nella sua interpretazione un peso specifico drammaturgico esemplare tanto quanto la parola scenica e il suo rincorrere motivi ricorrenti che in questo caso sono stati ricondotti alla loro natura primigenia, alle intenzioni del compositore: “segnali” che solo grazie all’eloquenza del fraseggio strumentale (e alla duttilità di tempi e dinamiche) assumono il loro più autentico senso drammatico.

L’orchestra dell’Arena è parsa tirata a lucido, nel seguire la linea del direttore napoletano al suo ritorno in anfiteatro dopo 41 anni, agevolata anche dal sistema di “sostegno” del suono, più evidente rispetto a quello attuato nelle esecuzioni normali, quando gli strumentisti sono in buca e i cantanti sul palcoscenico. E soprattutto più evidente per quanto ha riguardato le voci, con una messa a punto all’inizio non certo perfetta e molto più efficace con l’avanzare dell’esecuzione. In effetti, ascoltare, com’è accaduto, un “Celeste Aida” in cui la voce del tenore sembrava provenire essenzialmente da un punto del palcoscenico molto defilato e distante un paio di decine di metri rispetto alla posizione del cantante è stata una sensazione singolare.

In ogni caso, compagnia di canto di notevole livello. Il soprano Eleonora Buratto, al debutto nel ruolo, è stata un’Aida di fremente lirismo ma anche di ragguardevole intensità drammatica, pur con qualche tensione sull’acuto, ed è stata protagonista di un terzo e di un quarto atto di magnifica forza ed eleganza, nobilitate da un timbro seducente e da un’appropriatezza tutta verdiana nel fraseggio. Il tenore Azer Zada, ha disegnato un Radames lontano dalla banale esteriorità eroica, capace di esprimere nella linea di canto i tormenti e la forza nei quali si rispecchia la consapevolezza di fronte al destino di morte che attende il condottiero egizio. Meno convincente l’Amneris di Anna Maria Chiuri, che si è dimostrata capace di buone sfumature drammatiche ma che ha timbro forse un po’ chiaro per il ruolo, peso non ottimale nella zona bassa della tessitura e qualche tendenza alla forzatura nella zona alta.

Fra le voci basse, di lusso il Re dello specialista verdiano Michele Pertusi, e interessante il Ramfis dalla duttile vena cantabile di Riccardo Zanellato. Amonasro era l’esperto Ambrogio Maestri, che ha puntato sulla misura e la musicalità che fanno parte del suo bagaglio vocale. Completavano il cast, appropriatamente, il messaggero di Riccardo Rados e la Sacerdotessa di Benedetta Torre. Il coro dell’Arena istruito da Vito Lombardi ha ripercorso con attenzione e sottigliezza il suo cavallo di battaglia, in buon equilibrio nonostante gli inevitabili distanziamenti. Alle sue spalle, il grandissimo led wall che diventerà protagonista dei prossimi spettacoli ha offerto “inquadratura” fissa di un accidentato deserto sabbioso e rossastro sotto un cielo tempestoso.

Pubblico non da tutto esaurito. Dopo lunghe settimane in cui si è parlato per l’Arena di una capienza di 6 mila spettatori, a pochi giorni dal via questa cifra è passata in varie pubbliche dichiarazioni a 5 mila anche se molti giornali sono rimasti fermi al primo numero; nella cronaca della serata di apertura, il “Corriere di Verona” ha parlato di 4.200 presenze. Molti applausi durante l’esecuzione, lunghissimi e trionfali consensi alla fine, con standing ovation da parte di chi stava in platea.

Cesare Galla
(19 giugno 2021)

La locandina

Direttore Riccardo Muti
Personaggi e interpreti:
Il Re Michele Pertusi
Amneris Anna Maria Chiuri
Aida Eleonora Buratto
Radamès Azer Zada
Ramfis Riccardo Zanellato
Amonasro Ambrogio Maestri
Un messaggero Riccardo Rados
Sacerdotessa Benedetta Torre
Orchestra e coro dell’Arena di Verona
Maestro del coro Vito Lombardi

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