Venezia: Farnace…il brutto non è “vilipendio”
Nel mondo dell’opera, il teatro di regia – con le sue non di rado benefiche “violazioni” degli statuti non scritti della tradizione – non è più solo un’opportunità o un’opzione, ma spesso anche una necessità. Per motivare la riesumazione di lavori che spesso non meriterebbero di uscire dall’oblio, e specialmente per rivitalizzarne tanti altri che rischiano sennò di finire tra le cianfrusaglie inutili e un po’ stucchevoli del repertorio. Le tanto vituperate (dai tradizionalisti) “attualizzazioni”, ad esempio (ma limitare a questo aspetto il teatro di regia è ovviamente riduttivo), non sono sbagliate a prescindere e possono regalare prospettive rivelatrici, tenendo presente che lo scopo ultimo di qualsiasi spettacolo è mettere a fuoco nel miglior modo possibile la drammaturgia e la musica che la compone e la determina, non regalare sfondi, magari di dubbio gusto, per i pezzi favoriti.
La premessa serve per inquadrare meglio il discorso sull’opera di Vivaldi, che ha debuttato venerdì al teatro Malibran, seconda nuova produzione della Fenice dopo la riapertura dei teatri a conclusione delle forti limitazioni causate dall’epidemia. In scena è andato Farnace, gioiello riconosciuto all’epoca sua (debuttò al Sant’Angelo nel 1727 e fu molto ripreso non solo a Venezia negli anni seguenti), ma come tutti quelli del “prete rosso” consegnato all’oblio fino agli anni della sua “renaissance”. E in seguito di sicuro non ammesso al repertorio, neanche nell’ambito della voga per il teatro musicale barocco.
La lettura che ne offre il regista Christophe Gayral è attualizzata, ambientata in qualche landa del Medio Oriente tormentato e insanguinato dei nostri giorni. Di primo acchito, l’idea non sembra peregrina: il libretto di Antonio Maria Lucchini, ambientato nell’antichità romana, narra in effetti di un feroce confronto dinastico nel Ponto, terra affacciata sulla sponda meridionale del Mar Nero, fra il re deposto della regione (Farnace, appunto) e una potenza confinante, dominata dalla suocera del suddetto, Berenice; e del ruolo ambiguo e interessato svolto nel conflitto locale da una potenza imperialista come quella di Roma, ancorché “clemente e invitta”. Togliete re e regine (ma lasciate i legami familiari e i potentati dinastici) e l’attualizzazione potrebbe essere pertinente, specialmente alla luce di certe cronache dei nostri giorni.
Nel caso di Gayral, però, il problema è che prende troppo alla lettera un testo che dalla lettera sfugge ogniqualvolta Vivaldi ci mette del suo, il che avviene spesso. Posto che il melodramma all’inizio del ‘700 era programmaticamente legato al dispiegamento di un’ampia serie di “affetti”, a loro volta coincidenti con una vasta gamma di soluzioni sia vocali che strumentali, lo spettacolo – forse volutamente inserito in una scenografia militare molto “povera” e degradata (Rudy Sabounghi), quasi opprimente nel suo sfondo costantemente nero – finisce invece per offrire una narrazione “realista” che collide con quella tutta metaforica e allusiva dell’opera.
Niente fantasia, niente soluzioni visive suggestive, nel senso etimologico del termine. Piuttosto, un susseguirsi di armi sguainate e puntate, di catene e di manette, di donne in abbigliamento mediorientale, con veli e lunghe palandrane, di divise militari di vario tipo, a seconda che le indossino i guerriglieri del Ponto o i corpi speciali che attorniano i comandanti dei romani (costumi di Elena Cicorella). La tenuta della regina Berenice, suocera spietata, fa pensare a una “kapò”: si tratta della cattivissima dell’opera, una che non conosce amore per la figlia e nemmeno si intenerisce per il nipote bambino, ostaggio con tanto di cappuccio nero in testa, peraltro introdotto appena possibile dal padre Farnace all’uso delle armi.
Quanto alla forte componente sentimentale, anzi sensuale dell’opera, il regista non va per il sottile: ci sono personaggi al femminile che appena possono si denudano – fino ai dessous, beninteso, non oltre. La più scatenata è Selinda, la sorella di Farnace, che con lo scopo di aiutare il fratello tiene sulla corda sia un capitano di Berenice, Gilade, che un prefetto delle legioni romane, Aquilio. Il primo – potenza della meravigliosa Aria “Scherza l’aura lusinghiera” – incassa in anticipo il guiderdone del sostegno alla causa di lei, il secondo solo promesse. Entrambi pagheranno cara la conclusiva vittoria di Farnace. E la debolezza nei confronti dell’eterno femminino.
Accade infatti che il regista decida di capovolgere la conclusione musicale-testuale dell’opera. Altro che “Coronata di gigli e di rose / con gli amori ritorni la pace …” (come dice il coro finale): va in scena una mattanza in cui finiscono trucidati tutti i nemici di Farnace, dalla suocera (ci pensa lui direttamente) ai comandanti romani. Con buona pace delle convenzioni barocche, del testo, della musica di Vivaldi. Per certi aspetti, anche della filologia.
Alla musica, peraltro, nonostante il brutto spettacolo (di questo si tratta, non di “vilipendio operistico”) basta la buona esecuzione ascoltata al teatro Malibran. Sul podio, come per i precedenti capitoli di quello che ormai è un nitido percorso vivaldiano della Fenice dal 2018 in poi (Orlando furioso, Dorilla in Tempe e Ottone in villa) è salito lo specialista Diego Fasolis, autore di una lettura ricca di suggestioni sul piano strumentale e di molta precisione negli accompagnamenti, con gli orchestrali della Fenice (in parte su strumenti antichi) efficaci nel delineare lo spirito quasi concertante che spesso soffia su una partitura in vari momenti davvero seducente.
Nella variegata compagnia di canto, composta da specialisti del barocco, si sono messi in particolare evidenza il mezzosoprano Lucia Cirillo, Berenice sprezzante e insensibile delineata con la giusta raffinatezza e il distacco belcantistico che lo spettacolo ignorava, il controtenore Kangmin Justin Kim, Gilade dal timbro chiaro ed elegante e dal fraseggio ricco di sfumature e Sonia Prina, sofferta e intensa Tamiri, la sposa di Farnace. Quest’ultimo ha avuto un’irruenza non sempre controllata al meglio ma una buona resta vocale grazie al tenore Christoph Strehl, mentre Valentino Buzza ha dato nobiltà di accenti al ruolo di Pompeo e David Ferri Durà si è calato con adeguata scelta di stile e di colore nella parte di Aquilio. Positiva anche la prova di Rosa Bove nella parte di Selinda, risolta con efficace agilità e buona tenuta in tutte le zone della tessitura. Puntuale il coro istruito da Claudio Marino Moretti, sistemato nei palchi, in organico ridotto, per i brevi interventi che gli riserva Vivaldi.
Il pubblico della prima al Malibran, distanziato e a prima vista non numeroso come avrebbe potuto essere, ha espresso moderati consensi ai cantanti durante la rappresentazione e applaudito con calore alla fine. Solo qualche minimo segno di dissenso alla comparsa a proscenio del regista e dei suoi collaboratori.
Cesare Galla
(2 luglio 2021)
La locandina
Direttore | Diego Fasolis |
Regia | Christophe Gayral |
Scene | Rudy Sabounghi |
Costumi | Elena Cicorella |
Light designer | Giuseppe Di Iorio |
Personaggi e interpreti: | |
Farnace | Christoph Strehl |
Berenice | Lucia Cirillo |
Tamiri | Sonia Prina |
Selinda | Rosa Bove |
Pompeo | Valentino Buzza |
Gilade | Kangmin Justin Kim |
Aquilio | David Ferri Durà |
Un fanciullo | Pietro Moretti |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | |
Maestro del coro | Claudio Marino Moretti |
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