Padova: Un Trovatore da brividi

Un omaggio a Dante Gabriele Rossetti e alla pittura preraffaellita, ma anche all’opera di John William Waterhouse, che dei preraffaelliti fu l’epigono: il Trovatore nella visione di Filippo Tonon è diviene un dramma tardomedievale rivisto attraverso gli occhi del Romanticismo.

Il regista, scenografo e disegnatore di luci vicentino cristallizza l’azione scenica in uno spazio onirico fatto di distese di papaveri, illuminati da tagli decisi, e di d’interni celati da ombre maliose.
L’occhio è soddisfatto sin dalla prima scena; l’estetica di Tonon trova il suo fondamento nella ricerca del Bello senza mai cadere nel Calligrafico e così pure i movimenti di solisti e masse sottolineano senza mai calcare la mano.

Perfettamente in linea risultano anche i bei costumi di Cristina Aceti, curati nei tessuti e meticolosi nella scelta dei colori; unico neo il mantello corto con cappuccio col quale Manrico si presenta al suo primo ingresso e che lo fa assomigliare ad un incrocio fra Aigor (Frankenstein Jr.) e Gasperino er carbonaro (Il Marchese del Grillo), ma è peccato veniale.

Se il regista avesse potuto avere qualche giorno di prova in più avrebbe con tutta probabilità vinto la resilienza alla recitazione del Coro Lirico Veneto, che canta bene ma non sembra avvezzo al palcoscenico.

Complessivamente da dimenticare, fatte salve un paio di eccezioni, il versante musicale.

La direzione di Alberto Veronesi è balbettante nello stacco dei tempi, priva di slanci dinamici e di appeal ritmico, deficitaria nello sviluppo melodico, tutta incentrata su volumi di suono esagerati che tradiscono l’essenza stessa della pagina verdiana. Per giunta il palcoscenico è vissuto da Veronesi come un inutile e un po’ fastidioso ammennicolo da dimenticare in fretta; ne consegue uno scollamento costante con la buca (l’Orchestra di Padova e del Veneto fa quel che può) che sfocia in anarchia. Male.

Serata non particolarmente felice neppure per Walter Fraccaro il cui Manrico, avaro d’intonazione e prodigo di portamenti, seppure non privo di accenti, soffre di un canto “di narice” fin dalle prime battute. Alla fine, come si suol dire, “la porta a casa”, ma che fatica.

Maria Katzavara, irriconoscibile rispetto alla sua splendida Lina nello Stiffelio parmense di solo una settimana fa, arriva al suo debutto come Leonora senza uno studio approfondito della parte. La voce vaga alla ricerca di una posizione uniforme, il fraseggio è generico, le parole vengono inventate a più riprese. Clamoroso il vuoto di memoria sulla cadenza del Tacea la notte placida che costringe il direttore, in un raro guizzo di partecipazione, a suggerirle come andare avanti. Resterà a lungo il ricordo di “Com’aura di speranza aleggia la sostanza”; povero Salvadore.

Ottimo Enkhbat Amartuvshin, che si conferma autentica voce verdiana e si prende i suoi tempi disegnando un Conte di Luna dal fraseggio nobile e appassionato, ricco di colori e forte di un bel legato. Il suo Balen, giustamente cantato piano e sul fiato, è il momento più alto della serata.

Judit Kutasi, Azucena avrebbe voce di bel timbro e di volume ragguardevole ma la pone al sevizio di un canto routinier e di un approccio drammaturgico dimenticabile.

Buono il Ferrando di Simon Lim, che si conferma per solidità della linea di canto e presenza scenica.

Completano il cast la pallida Ines di Carlotta Bellotto, il Vecchio Zingaro corretto di Luca Bauce, il Ruiz un po’ sopra le righe di Orfeo Zanetti e il Messo di Luca Favaron.

Successo trionfale per tutti, ma proprio tutti.

Alessandro Cammarano

(Padova, 27 ottobre 2017)

La locandina

Direttore Alberto Veronesi
Regia, scene e luci Filippo Tonon
Costumi Cristina Aceti
Conte di Luna Enkhbat Amartuvshin
Leonora Maria Katzavara
Azucena Judit Kutasi
Manrico Walter Fraccaro
Ferrando Simon Lim
Ines Carlotta Bellotto
Ruiz Orfeo Zanetti
Un vecchio zingaro Luca Bauce
Un messo Luca Favaron
Orchestra di Padova e del Veneto
Coro Lirico Veneto
Maestro del Coro Stefano Lovato

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