Kantorow: La mia vita tre anni dopo il Tchaikovsky

Francese, classe 1997, Alexandre Kantorow è già uno dei pianisti più interessanti al mondo, con una carriera esplosa dopo la vittoria del Primo Premio al Concorso Tchaikovsky di Mosca nel 2019, insieme all’ingente Grand Prix come migliore tra tutti i primi premi del Concorso (che ospita più sezioni). Il 9 marzo, Kantorow si esibirà agli Amici della Musica di Padova, eseguendo musiche di Liszt, Schumann e Skrjabin. Lo raggiungo telefonicamente poco prima dell’inizio del suo tour.

  • Ormai sono passati quasi tre anni dalla vittoria al Tchaikovsky. Cos’è successo dopo il primo premio?

Un bel delirio! È stato tutto di colpo, io stesso non mi aspettavo certo di vincere e non avevo idea di cosa sarebbe successo dopo. Ho suonato ininterrottamente per mesi, fino alla pandemia, ma ho presto ripreso a suonare. Il mio principale obiettivo, in quei forsennati mesi, era di adattarmi, di capire piano piano quale fosse il mio ritmo. Anche con lo studio, ho dovuto rendere i momenti allo strumento veramente importanti e concentrati. Insomma, è stato veramente come su una montagna russa, anche per tutti gli incontri che mi sono trovato a fare! Ho potuto conoscere molte persone che ho ammirato per anni, stando seduto dalla parte del pubblico. È una sensazione mista, un po’ come essere un bambino in un parco divertimenti e allo stesso un adulto che dev’essere all’altezza delle responsabilità e delle aspettative nei suoi confronti.

  • Parli di trovare il tuo ritmo e dare più significato ai momenti alla tastiera. Cosa intendi esattamente?

Quando un ingranaggio di queste dimensioni si mette in moto, il tempo da dedicare allo strumento è pochissimo. Quando sei studente ti sembra di fare sempre tantissimo: se passi quattro o cinque ore di fila a studiare ti sembra di aver raggiunto chissà quale obiettivo. In realtà queste ore di studio possono essere molto dispersive, ti accontenti e subentra anche un po’ di pigrizia. Almeno nel mio caso! Quello che conta, invece, è rimanere costantemente concentrati durante quelle ore al pianoforte, perché non ne avrai molte. Quindi ho riscoperto l’importanza di studiare anche lontano dallo strumento. Prima di sedermi allo strumento, ho bisogno di avere un’idea chiara, cerco nella partitura ciò che poi trovo sul pianoforte, voglio avere chiaro nelle orecchie il suono, prima di sedermi alla tastiera. Anche viaggiare può essere utile, soprattutto quando ti porta a confrontarti sempre con nuove sale e nuovi strumenti, in cui ti trovi a provare magari la sera prima del tuo concerto, suonando qualcosa di completamente diverso e scopri nuovi dettagli. Ancora è tutto un po’ nuovo, ma mi sto abituando sempre di più.

  1. Avere poco tempo per studiare significa anche dover scegliere con cautela il tuo repertorio. Come avviene la tua scelta?

Quello del pianoforte è repertorio immenso. Anche limitandosi ai capolavori, puoi passare la vita senza averlo percorso tutto. La mia sensazione è di essere una sorta di esploratore che deve trovare il suo percorso individuale in questo territorio sconfinato. Per quello non cerco un autore o un’epoca in particolare, ma tendo a fissarmi più su singoli brani che mi parlano particolarmente. La costruzione dei miei programmi parte da questi capisaldi, intorno ai quali organizzo il mio concerto. Prendiamo ad esempio il programma che porterò ora in Italia. Tutto è partito dalla Fantasia quasi Sonata “Aprés une lecture de Dante” di Liszt. Era da tempo che volevo affrontarla seriamente. Allora ho cercato brani che potessero offrire punti di contatto: ad esempio la Fantasia su “Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen” di Bach/Liszt, che ha questo stesso tipo di angoscia, espressa dall’attenzione per l’intervallo cromatico discendente. Poi ho trovato altri brani di Liszt, come Abschied e La Lugubre Gondola, ma anche Vers la flamme di Skrjabin. Tutti questi pezzi, poi, creano un percorso, un viaggio che punta verso l’oltre, l’al di là.

  • In prima parte c’è anche la Sonata n. 1 op. 11 di Schumann. Come si colloca questa?

Con la prima Sonata abbiamo un lavoro veramente strano. Stilisticamente rispetta tutti i crismi della sonata classicamente intesa, ma all’interno è percorsa da tensioni bipolari, le stesse che troveremo con sempre maggior chiarezza nella musica di Schumann. In un certo senso questa Sonata è premonitrice dell’evoluzione del suo compositore. Nonostante l’amore tra Schumann e Clara, pur se contrastato, fosse agli esordi, nella Sonata ci sono picchi di nostalgia verso un amore passato e perso per sempre, al fianco di gesti baldanzosi e pieni di audacia giovanile. Anche dal punto di vista pianistico, troviamo Sonata delle specifiche tecniche di scrittura che già si delineano con un’individualità notevole. Ciononostante è un brano complesso: una delle prime sfide della Sonata op. 11 è darle coerenza, resistere alle spinte centrifughe che ad ogni battuta introducono qualcosa di nuovo e renderla intellegibile al pubblico, in ogni sua parte. Il rischio è che diventi molto confusionaria.

  • Prima parlavi di abituarsi, di crescere ed essere all’altezza delle responsabilità di un artista adulto. Pensi che queste responsabilità siano cambiate, oggi, con quello che succede nel mondo?

Non credo che il ruolo dell’artista sia cambiato, ma che ci fossimo dimenticati di alcuni aspetti che sono sempre stati lì. Un artista, attraverso la sua musica, attraverso quest’arte che non ha bisogno di parole per esprimersi, è capace di portare insieme le persone come pochi altri, di favorire un dialogo essenziale. Soprattutto oggi, le persone devono essere al centro dei nostri pensieri, perché se è vero che siamo alle soglie di una guerra, a pagarne il prezzo sono sempre loro, i civili, gli stessi che fino a qualche mese andavano ai concerti e sostenevano con calore l’arte e la cultura. Ora che la follia sempre dilagare, non possiamo dimenticarci di loro. Anche se abitano in Russia.

Alessandro Tommasi

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