Roma: la Turandot secondo Ai Weiwei

Mentre i bombardamenti russi radono al suolo Mariupol, e il presidente ucraino Volodymyr Zelenski parla al Parlamento italiano, il Teatro dell’Opera di Roma, illuminato con i colori della bandiera ucraina, allestisce una nuova produzione della Turandot di Giacomo Puccini, l’affidandone la direzione Bill Douthart alla direttrice del Comunale di Bologna, Oksana Lyniv, ucraina di Brody,  e la messa in scena completa,  regia, scene, costumi e video, al dissidente cinese Ai Weiwei, considerato oggi uno dei più importanti e controversi artisti del mondo. L’evento è tale da mettere   in sordina le ragioni dei tradizionalisti della lirica e la filologa dei puristi, che forse sognavano l’ennesima replica senza tempo della favola di Carlo Gozzi sulla principessa frigida e crudele che decapita i pretendenti incapaci di risolvere tre oscurissimi indovinelli. Stavolta infatti, al Teatro Costanzi, l’arbitrio del potere e la violenza dell’arbitrio prendono i colori dell’ultra contemporaneità. Ai Weiwei a Roma, città che adora e considera “la sua città”, firma la sua prima e unica (così dice) regia d’opera, scegliendo apparentemente una scena classica, ma solo per stravolgerla dall’inizio alla fine con una serie impressionanti di video, immagini registrate   e video di animazione, che scorrono sul fondo come un film asincrono rispetto all’azione del dramma, irretendo la platea, catturandone l’attenzione fino a ipnotizzarla con un racconto dentro il racconto.

Se la scena è unica, ferma, immutabile, con la scala asimmetrica della reggia dell’imperatore, su cui siedono quasi immobili come comparse di un quadro neoclassico guardie, mandarini, gran sacerdoti, alti dignitari di corte, coi loro abiti sontuosi e coloratissimi, che cambiano di tono e intensità a seconda delle gradazioni delle luci di Peter Van Praet, mentre tutto intorno  scalpitano i soldati e  la folla mutevole del popolo di Pekino, e una processione di bambini, il coro bianco del primo atto,  attraversa  la scena da sinistra a destra in fila per due, inalberando un’unica testa a forma di lanterna, sul fondo scorrono le  immagini tridimensionali dei video di Ai Weiwei, girati una prima volta per l’edizione di due anni fa, annullata causa Covid, e ripresi ex novo per questa strabiliante produzione del 2022, che coincide con la fine della pandemie e con l’inizio della guerra alle porte dell’Europa.

Ecco allora apparire una mappa tridimensionale del mondo d’oggi, con l’assonometria degli intrecci delle mega autostrade cinesi, con i palazzi stratosferici, che svettano dietro i monoliti in legno della scena fissa, che dovrebbero evocare le rovine romane. Ecco poi il volo in picchiata della telecamera sul drone sulle piazze di Hong Kong, che riprende gli idranti sparati dai poliziotti cinesi sulla folla di studenti che manifestano contro il potere centrale di Pechino. E poi di nuovo attualità, con   le immagini di Wuhan in balia del Covid 19, i medici e gli infermieri cinesi intubati nelle loro tute bianche che sembrano scafandri, che si aggirano come fantasmi sotto la luce verdognola degli ospedali, mentre un corridoio vuoto e senza fine si allunga con un incubo inghiottendo chi cerca di percorrerlo.

Oksana Lyniv, la direttrice ucraina del Comunale di Bologna, prima direttrice donna al Festival di Bayreuth, già assistente di Kirill Petrenko a Monaco di Baviera, europea di cuore e formazione, ha riproposto la Turandot nel la versione incompiuta di Puccini, senza cioè il finale   di Franco Alfano, e ha diretto l’Orchestra dell’Opera di Roma con  grande precisione e eleganza, e fortissima emozione, ripensando alla sua amata Odessa, dove fece i primi passi e diresse per la prima volta l’opera di Puccini. Sappiamo che in Italia ha accolto in casa sua vari suoi connazionali, profughi sconosciuti in cerca di un rifugio. Sappiamo che ha scritto una lettera coraggiosa a Vladimir Putin, per dirgli che può anche distruggere l’Ucraina, ma non riuscirà a cancellarla dalla faccia della Terra, perché contro la libertà e l’amore, le armi sono impotenti.

E perciò, nessuno meglio di lei, questa donna minuta e coriacea che vive intensamente la musica Puccini, e dirige alzando il braccio verso il cielo, poteva capirsi al volo col cinese Ai Weiwei per far vibrare l’ultimo dramma  di Puccini di un suo mistero tragico e straziante in cui risuonano  l’arbitrio e la violenza del dispotismo orientale di oggi, e  in un passato remoto distopico riecheggia l’aggressione di un autocrate solitario ai danni di un intero popolo col suo strascico di devastazione e morte, col  dolore dei profughi costretti a trovare scampo in altri paese, come Liù, la giovane schiava, interpretata dalla voce sottile, e però sfolgorante del soprano Francesca Dotto, la dolce antagonista di Turandot, principessa dispotica e crudele interpretata con grande maestria tecnica dall’ucraina Oksana Dyka. Come il Timur  il re tataro spodestato, restituito nel suo dramma intimo dal basso Antonio di Matteo, e come Calaf, il principe ignoto e però ultra convincente, nella sua linea melodica costante, nei suoi acuti potenti, e persino nell’agilità fisica del tenore Michel Fabiano costretto a muoversi per metà spettacolo con un rospo di pezza sulla schiena: “Puccini racconta di catastrofi che risuonano nel nostro presente” ha detto il cinese Ai Weiwei, che ha l’abitudine di mettere un animale in ogni sua opera, citando la pandemia, le proteste di piazza, la crisi dei rifugiati, e ora anche la guerra.

Attraverso la favola di Gozzi e la storia di Puccini, l’artista cinese ha voluto rappresentare le lotte politiche e culturali di oggi. Il risultato è  un evento memorabile, per il profluvio di immagini, per la ricchezza dei video,  per la forza straordinaria dell’animazione a flusso continuo, e dell’installazione funzionale all’opera lirica, e addirittura sovraordinata alla musica e al canto, È così per esempio alla fine del primo atto, quando le immagini dei grattacieli esplodono in un caleidoscopio di colori, mentre la folla commenta lo strazio di Liù che invoca la fine, intonando “La fossa già scaviam per te che vuoi sfidar l’amor! Nel buio c’è segnato, ahimé, il tuo crudel  destin!”. E’ così nel secondo atto, quando Ping, il Gran Cancelliere (interpretato dal grande baritono Alessio Verna), inizia a cantare “ho una casa nell’Honan, con il suo laghetto blù, tutto cinto di bambù” sul fondo si vede scorrere una barca sul Canal Grande che passa sotto il Ponte di Rialto a Venezia, poi si vede colorarsi di rosso l’Empire State Building, e poi la Tour Eiffel con su scritto, “Stay at home”. E’ così nel terzo atto, quando alla fine di Nessun dorma appare un mare di fiaccole di manifestanti di Hong Kong ripreso dall’alto, e poi, preceduti dal cartello “Open the Border”, sempre sullo schermo di Ai Weiwei si vedono planare su un mare nero pesto migliaia di statuine in terracotta dell’esercito dei migranti sui barconi in terracotta, che col loro dramma maestoso e lancinante, rappresentano – abiezione dei nostri tempi di globalizzazione –  il perfetto rovescio del glorioso esercito dei guerrieri di Xi’an.

Marina Valensise
(22 marzo 2022)

La locandina

Direttrice Oksana Lyniv
Regia, scene, costumi, video Ai Weiwei
Luci Peter van Praet
Movimenti coreografici Chiang Ching
Personaggi e interpreti:
Turandot Oksana Dyka
Altoum Rodrigo Ortiz
Timur Antonio Di Matteo
Calaf Michael Fabiano
Liù Francesca Dotto
Ping Alessio Verna
Pang Enrico Iviglia
Pong Pietro Picone
Un mandarino Andrii Ganchuk
Il principe di Persia Chao Hsin
Voce del principe di Persia Giuseppe Ruggiero
 Orchestra e coro del Teatro dell’Opera di Roma
Maestro del coro Roberto Gabbiani

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