Vicenza: al Quartetto Richard Goode, pianista bibliofilo
Se trent’anni fa, in un ampio ritratto pubblicato sulla rivista The New Yorker, il pianista americano Richard Goode raccontava di avere una libreria con cinquemila volumi, viene da chiedersi a che punto sia arrivato ora. E quante edizioni possegga di uno dei suoi libri d’elezione, Moby Dick: allora ne aveva già quattro o cinque. Nel 1992, Goode aveva rivelato all’autore dell’articolo, David Blum, che Schubert nell’ultima lettera scritta prima di morire aveva chiesto a un amico informazioni su James Fenimore Cooper, lo scrittore americano de L’ultimo dei Mohicani: una circostanza singolare sulla quale non cessava di interrogarsi.
Difficile dire quanto numerosi siano, in giro per il mondo, i pianisti bibliofili. Qualcosa induce a pensare che non siano poi molti. E anche questo dettaglio serve a illustrare l’originale figura di questo interprete, un musicista raffinato e profondo che solo dopo i quarant’anni è salito alla ribalta come solista, dedicandosi in precedenza quasi esclusivamente – e con cospicui risultati – alla musica da camera.
Trent’anni fa Goode era vicino ai 50, e già allora non nascondeva le sue preoccupazioni per i vuoti di memoria, elemento non isolato di una certa “paura del palcoscenico” che cercava di tenere a bada in vari modi. Oggi il pianista americano ha risolto la questione nella maniera più semplice: superando la consuetudine non scritta e mettendo sul leggio le partiture. Lo faceva nell’ultima parte della sua carriera anche Svjatoslav Richter. Che però non aveva a fianco, come lui, la moglie violinista per girargli le pagine.
Nutrito da una formazione di alto livello (e basti dire che è stato allievo di Rudolf Serkin al Curtis Institute), il suo è un pianismo di razza, che si esprime in letture intrise di un misurato e sapido classicismo, evolute però in una cifra interpretativa del tutto personale e caratteristica, grazie a una capacità affascinante di “raccordare” le metamorfosi del suono con le peripezie della forma.
Ne è stata un’esemplare dimostrazione il programma ampio e solo in apparenza “composito” del magnifico recital che Goode ha tenuto al Teatro Comunale di Vicenza per la Società del Quartetto, concerto che era in calendario due anni fa ed era stato rinviato a causa della pandemia. Le due parti della serata proponevano, infatti, con autori diversi e di epoche più o meno lontane, la stessa questione musicale. La quale in soldoni si potrebbe definire così: il “ritorno all’ordine” – descritto in un percorso cronologico all’incontrario – della scrittura pianistica dall’estetica dei piccoli pezzi, più o meno fra loro coesi, a quella della grande tradizione della forma sonata. Salvo sottolineare che anche all’interno di quest’ultima non tutto è necessariamente così chiaro e distinto, e in ultima analisi rassicurante.
Nella prima parte si è quindi passati dallo Schumann giovanile dei Papillons, ciclo di dodici pezzi quasi tutti a tempo di Valzer (1831), alla Sonata in La minore op. 42 di Schubert, composta nel 1825, e quindi alla vigilia dell’ultima stagione creativa del compositore viennese. Nella seconda parte, invece, il percorso all’indietro era dal microcosmo naturalistico ed etnologico dei Canti contadini ungheresi di Bela Bartók, nati all’epoca della Prima Guerra mondiale, fino alla Sonata op. 101 di Beethoven, il primo fiore del tardo stile nell’ambito pianistico (1816).
L’estroversa baldanza cinetica di Schumann, solo velata al centro della raccolta da una terna di Valzer in modo minore, è stata risolta da Goode con brillantezza mai semplicemente estroversa, grazie all’instancabile lavoro sulle gamme timbriche, seducenti specie nella parte bassa della scrittura. Questa brillantezza solo apparentemente appartiene anche alla Sonata di Schubert, in realtà emblema di irrisolta tensione per le divagazioni del pensiero musicale all’interno della forma tradizionale. Non a caso, la parte più poetica della composizione sono le Variazioni in cui si articola il secondo movimento. Le mutazioni armoniche, motiviche e dinamiche della scrittura sono state rese da Goode con poesia raffinata e nitida: ciascuna con le sue profonde e diversificate ricchezze, dentro a uno sguardo complessivo capace di dare sempre il segno della cornice entro cui sono racchiuse.
Nella seconda parte, l’esemplare forza espressiva delle melodie raccolte sul campo da Bartók si è sgranata con icastica evidenza in quindici rapidi pezzi che solo a tratti svelano complessità armoniche, mentre sempre si fanno apprezzare per la varietà dei colori, trattati da Goode con delicata ma non rinunciataria eleganza. Un mosaico dopo il quale la Sonata op. 101, lavoro “aspro e problematico, di geniale farraginosità” (così Giovanni Carli Ballola) ha dimostrato come non basti a un discorso musicale chiaro e distinto la forma consacrata dalla tradizione se a maneggiarla è un compositore che di questa forma sente i limiti e magari si propone di superarli. Eppure, c’è attenzione e c’è studio anche in questo capolavoro un po’ irrisolto, e Goode proprio questo ha messo in evidenza: le intriganti contraddizioni beethoveniane sono emerse in tutta la loro drammatica forza espressiva, dentro a un’interpretazione comunque consapevole delle radici di questo panismo, che affondano in capolavori come la Waldstein o l’Appassionata. E dunque alla fine l’impressione è stata quella di un interprete capace di “mediare” culturalmente fra istanze diverse, salvaguardando la trascinante potenza del suono in tutte le sue manifestazioni.
Applausi convinti da parte di un pubblico che si sarebbe voluto più numeroso al Comunale. Come bis, una gemma ancora di Schubert, l’Improvviso in Sol bemolle, terzo dell’op. 90.
Cesare Galla
(24 marzo 2022)
La locandina
Pianoforte | Richard Goode |
Programma: |
|
Robert Schumann | |
Papillons op.2 | |
Franz Schubert | |
Sonata in La minore op. 42 D. 845 | |
Béla Bartók | |
15 Hungarian Peasant Songs | |
Ludwig van Beethoven | |
Sonata in La maggiore n. 28 op.101 |
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