Parigi: A quiet place entra in repertorio all’Opéra
Si ricredano gli scettici passatisti convinti che l’opera sia un genere superato, senza presente, senza futuro. La dimostrazione del contrario arriva adesso dall’Opera di Parigi che apre la stagione con una nuova produzione a Palais Garnier di A Quiet Place, l’opera in un prologo e tre atti composta quarant’anni fa dall’americano Leonard Bernstein (1918-1990). Messa in scena dal polacco Krzysztof Warlikowski, con le scene e icostumi di Malgorzata Szczęśniak, le luci di Felice Ross e uno strepitoso video di Kamil Polak a mo’di prologo, lo spettacolo rappresenta la prima mondiale della versione aumentata, rispetto a quella del 2013, con la concertazione per grande orchestra creata apposta da Garth Edwin Sunderland in occasione dell’ingresso nel repertorio dell’Opéra de Paris.
Nel 1983, quando Bernstein la compose dopo i successi a Broadway di On The Town e West Side Story, lavorando mano nella mano con un librettista ventenne neolaureato a Harvard, era già un titano della musica contemporanea. E, come ricorda oggi lo stesso Stephen Wadsworth, si era messo in testa di far evolvere l’opera americana, sottraendola all’insabbiamento in cui finiva chi cercava di imitare il modello europeo. Bernstein invece voleva raccontare storie americane usando un linguaggio musicale e artistico tipicamente americano e ultra contemporaneo. Fu così che decise di tornare su un vecchio lavoro di trent’anni prima Trouble in Tahiti, del 1952, e approfondirne il tema ancora abbastanza scabroso del dramma di una famiglia disfunzionale alle prese con una madre depressa, e forse suicida, con l’ omosessualità e la bisessualità dei figli, e con l’ombra dell’incesto sullo sfondo. Soggetto all’apparenza autobiografico, ma che invece, apprendiamo oggi, rinviava al vissuto non del compositore bensì del librettista, bisessuale come lui. Da parte sua Bernstein, per quanto esigente e terribilmente autocritico, ben presto si convinse che la sua nuova partitura non somigliava a nessun’altra. “Possiede un linguaggio e un suono particolari che la contraddistinguono. Mai prima d’ora la lingua americana ha ricevuto un simile trattamento”, scrisse.
In effetti colpisce la ricchezza di una partitura modernissima, melodica e astratta al tempo stesso, che combina la tradizione jazzy, lo swing con una sapiente rievocazione del repertorio classico riversata nei colori contemporanei per dare vita ai contrasti emotivi del protagonista. Il direttore Kent Nagano, già collaboratore di Bernstein ne coglie tutte le sfumature, tragiche, delicate, ridicole, grottesche. I cantanti ne restituiscono la complessità, calandosi alla perfezione nel ruolo, scavando nella psicologia dei personaggi. Ma la vera sorpresa è la misura e il controllo assoluto della regia di Warlikowski, che sottolinea di continuo la violenza emotiva e la fragilità dei personaggi, stemperandole però con una varietà di trovate sorprendenti. Così all’inizio, per esempio, proietta un potente video in bianco e nero, per raccontare il prologo del dramma, con l’incidente d’auto e la morte della madre, Dinah, avvolta nel rosso sangue del suo vestito, dopo un tremendo testacoda causato non si sa se dalla nebbia, dalla pioggia o dal tasso alcolico esorbitante di un’aspirante suicida. A metà del secondo atto, infila un video in cui lo stesso Bernstein mima il turbinio del desiderio trasfuso da Čajkovskij nella Quarta Sinfonia.
I cantanti entrano in scena al funerale della madre, aggirandosi in mezzo alle sedie disposte in ordine geometrico davanti alla bara, fra il chiacchiericcio e il gossip degli astanti. C’è la figlia Dede, unico ruolo femminile interpretato da un soprano di coloratura come la bravissima Claudia Boyle, che diretta sempre da Nagano aveva già cantato nella prima rappresentazione al Konzerthaus di Berlino, e che a Parigi regge dall’inizio alla fine con grande naturalezza una tessitura esigente. Poi c’è Sam, il padre vedovo che sbraita e si dispera per i sensi di colpa, grazie alla solida interpretazione del basso tedesco Russel Braun. Il genero François, alias il tenore canadese Frédéric Antoun, che interpreta il marito di Dede, il quale poi scopriamo essere anche l’amante del di lei fratello Junior. E poi c’è Junior, che ha la voce del baritono canadese Gordon Binter, un gigante vestito da cowboy gay e postmoderno in rosa shocking, il quale getta lo scompiglio quando inizia uno spogliarello davanti alla bara della madre per mettere in imbarazzo il padre anaffettivo.
Il colpo di maestro continua al secondo e al terzo atto con l’anamnesi del dramma della famigliola disfunzionale, che avviene entrando nelle due stanze della tranquilla casetta americana, due scatole parallele con tanto di neon, finestre sul giardino, mobili da soggiorno, dove entrano in scena da un lato la madre depressa e il figlio bambino, inquieto, pestifero e quindi gay, dall’altro il padre vedovo che si riconnette alla figlia quando costei si infila un vecchio vestito della madre, la cui ombra è onnipresente. E così sino alla fine, con una macchina narrativa senza intoppi, si passa dal dramma all’agnizione, dalla memoria allo scherzo, dalla rivisitazione del passato rimosso all’accettazione del presente e di ogni diversità, in nome della compassione, dell’affetto ritrovato che dà il via libera alla tolleranza.
Marina Valensise
(26 marzo 2022)
La locandina
Direttore | Kent Nagato |
Regia | Krzysztof Warlikowski |
Scene e costumi | Malgorzata Szczęśniak |
Luci | Felice Ross |
Video | Kamil Polak |
Drammaturgia | Miron Hakenbeck |
Personaggi e interpreti: | |
Dede | Claudia Boyle |
Francois | Frédéric Antoun |
Junior | Gordon Bintner |
Sam | Russel Braun |
Direttore del servizio funebre | Colin Judson |
Bill | Régis Mengus |
Susie | Hele Schneiderman |
Analista | Loïc Felix |
Doc | Jean-Louis Ballestra |
Mrs Doc | Emanuela Pascu |
Partecipanti al funerale | Marianne Croux, Ramya Roy, Kiup Lee, Niall Anderson, Dinah Johanna Wokalek |
Orchestra e coro dell’Opéra national de Paris | |
Maestro del coro | Alessandro Di Stefano |
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