Il Beethoven asciutto del quartetto Casals

Il Quartetto Casals – la più nota e affermata formazione cameristica iberica, intitolata al grande violoncellista catalano del ‘900 – ha costruito in occasione del ventennale della propria formazione un progetto di alta valenza culturale, oltre che musicale. Già l’iniziativa di una tournée internazionale dedicata all’esecuzione integrale dei sedici quartetti di Beethoven, suddivisa in sei programmi, ha pochi paragoni nel panorama concertistico internazionale e costituisce una sfida esecutiva fra le più alte e impegnative. Ma il tocco speciale è dato dalla decisione di commissionare a sei giovani autori altrettanti nuovi quartetti: il miglior modo, probabilmente, di far capire quanto l’eredità artistica del prodigioso corpus beethoveniano non sia stata viva e operativa solo nel secondo Ottocento e nel Novecento, ma  continui a rappresentare un riferimento imprescindibile ancora oggi, in un’epoca nella quale i furori avanguardistici sono stati archiviati e la nuova musica conosce una vitalità ben più comunicativa ed empatica nei confronti del pubblico.

Il discorso è tanto più significativo nel caso del programma proposto dal Casals al Comunale di Vicenza, nell’ambito della stagione della Società del Quartetto, che aveva un richiamo del tutto particolare per gli appassionati. La serata affiancava infatti due dei più celebri fra gli ultimi quartetti del compositore tedesco, l’op. 132 in La minore e l’op. 135 in Fa maggiore, e li faceva precedere in apertura dal quartetto op. 18 n. 6 in Si bemolle. Nella ghirlanda dei lavori di gioventù, questo è quello al quale gli storici più riconoscono un ruolo in certo modo quasi anticipatore delle atmosfere e del clima espressivo che proprio l’op. 135 porterà al grado più alto. Il riferimento è specialmente per il conclusivo Allegretto, introdotto da un introspettivo Adagio detto “La malinconia”, che non manca di far sentire i suoi effetti melodici e armonici nel corso dello sviluppo tematico. Sembra quasi il socchiudersi di una finestra interiore che un quarto di secolo più tardi, negli ultimi tormentati anni della sua vita, Beethoven spalancherà decisamente e definitivamente. Il risultato è un’accentuazione soggettiva che ricorre spesso nello stile tardo dei sommi dell’arte musicale (e basti pensare a Bach e alle sue opere “speculative”). Se ne ha il culmine definitivo nell’ultimo movimento dell’op. 135, “Grave ma non troppo tratto, Allegro”, una delle ultime creazioni beethoveniane, che giustappone la dolorosa interiorità di forte tensione armonica dell’introduzione con la serafica leggerezza dello sviluppo centrale, prima della coda in pizzicato – che come poche altre pagine di Beethoven attinge il sublime in una metafisica semplicità.

Nella seconda parte della serata campeggiava il vastissimo monumento del quartetto op. 132, completato nel 1825. È musica navigando nella quale ben presto scompaiono dalla vista i familiari riferimenti formali dell’arte beethoveniana. Ci si trova in mare aperto, in un panorama totalmente sconosciuto nel quale la forma cessa di essere cornice e vincolo. La contrapposizione ed elaborazione dei temi sembra sfuggire alle regole del Classicismo, per puntare decisamente verso una dimensione nuova, nella quale ogni elemento del discorso musicale è soggetto ad elaborazione e mutazione incessanti. Il culmine si ha nella leggendaria “Canzona di ringraziamento offerta alla Divinità da un guarito, in modo lidico”, lo sterminato movimento lento centrale che muove dall’arcaica dimensione melodico-armonica della modalità per esplorare un universo sonoro che promana dalla preghiera per toccare più volte la dimensione, inedita in Beethoven, di una trasognata serenità. La stessa che nel Finale dell’op. 135, di lì a pochi mesi, troverà gli accenti del disincanto e dell’ironia.

Prima dell’op. 132, è stata la volta del nuovissimo quartetto composto da Matan Porat, trentacinquenne compositore israeliano che vive a Berlino. L’opera ha avuto la sua prima assoluta a Londra nello scorso settembre e quella vicentina è stata la prima italiana. Intitolato “Otzma” in ebraico, cioè forza, il brano fa esplicito riferimento proprio alla Canzona e in parte al secondo movimento, sia per la costruzione per piano sonori spesso reiterati, quasi ossessivi, sia per le rarefatte scelte timbriche. La costruzione è solida, propositiva, ricca di sfumature espressive su piani particolari che lentamente definiscono il quadro complessivo: il Quartetto Casals lo ha reso con notevole concentrazione ed efficacia, delineando bene la sfaccettata gamma dinamica della scrittura e lo spessore del gioco fra le parti. L’originalità della scrittura di Porat, pur nell’esplicito riferimento creativo, è emersa con interessante evidenza.

Nell’ambito dei quartetti beethoveniani, le cose migliori il Quartetto Casals (Vera Martinez-Mehner e Abel Tomàs violini, Jonathan Brown viola, Arnau Tomàs violoncello) le ha fatte sentire nell’op. 18 n. 6, delineato con nitida ed elegante scelta stilistica, efficace equilibrio, colore pieno. Un Beethoven, in questo caso, nel quale le ascendenze classiciste non impediscono la profondità dell’espressione nel Finale.

Nei due capolavori del tardo stile, l’articolata omogeneità che è cifra tipica dei grandi complessi si è manifestata più nella sofferta ricchezza del fraseggio – acceso da scelte dinamiche di grande efficacia – che nel suo corrispettivo timbrico, per una certa quale secchezza sottile nel suono del primo violino, piuttosto lontana dalla pienezza corposa ed eloquente specialmente di viola e violoncello, mirabilmente amalgamati eppure capaci di grande evidenza “solistica”. Ne è uscita un’interpretazione nella quale l’indubbia intelligenza musicale è sembrata, almeno a tratti, non trovare corrispondenza persuasiva nella “materia” del suono. E non è da escludere che la difficile acustica del Comunale e l’ampiezza degli spazi abbia avuto in questo un peso importante. Ciò non toglie che il taglio interpretativo abbia colto come in questi lavori il pensiero musicale di Beethoven diventi in qualche modo “disincarnato”, fra disarmanti leggerezze e stordenti profondità.

Pubblico meno numeroso di quel che l’occasione avrebbe meritato. Cordialissimi gli applausi.

Cesare Galla

(13 novembre 2017)

La locandina

Cuarteto Casals
Violini Abel Tomàs e Vera Martìnez Mehner
Viola Jonathan Brown
Violoncello Arnau Tomàs
Programma:
Beethoven 
Quartetto n. 6 in Si maggiore op. 18 n. 6
Quartetto n. 16 in Fa maggiore op. 135
Porat
Quartetto per archi “Otzma”
Beethoven
Quartetto n. 15 in La minore op. 132

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