Salisburgo: Il Messiah mediterraneo di Jordi Savall

Il Festival di Salisburgo riserva molti momenti preziosi, concentrati in una programmazione così fitta da potervisi perdere. Il Messiah di Händel diretto da Jordi Savall con La Capella Nacional de Catalunya e Le Concert des Nations, eseguito il 27 luglio presso la Kollegienkirche, è sicuramente uno di questi. Riuscire ad assistere al Messiah di Händel diretto da Savall con i due suoi ensemble è un’esperienza rivelatoria e affascinante. La prima cosa che mi ha colpito dell’interpretazione del celebre gambista, sono stati i tempi. Molte interpretazioni odierne tendono a prendere il Barocco con nervosa leggerezza, guizzi, scarti vertiginosi costruiti sullo sferragliare di un continuo ritmico e agguerrito. Savall, forse complici anche gli ormai 80 passati, affronta il grandioso oratorio con i piedi ben piantati per terra, senza correre, senza esasperare i contrasti, ma anche senza appesantire i fraseggi con una retorica bombastica e affidandosi invece ai prodigiosi cambi di colore di coro e orchestra per riuscire a tenere sempre l’eloquio scorrevole e flessibile. Una flessibilità già esemplificata nel cambio di tonalità tra la Sinfonia d’apertura e il primo arioso del tenore. Nel passaggio da mi minore a mi maggiore, con placida fermezza Savall ha trasformato in un gesto il colore della sua orchestra, passando dai toni bruniti, dai fraseggi scolpiti e dalla fiera maestosità dell’ouverture ad una leggerezza vivace con tale maestra che, per usare un’analogia visiva, sembrava di aver assistito ad una metamorfosi dai densi colori ad olio alle leggere tinte pastello.

In queste variopinte alternanze, in questa opulenza di timbri, nel favore incontrato dai colori scuri degli archi gravi in contrasto con le improvvise schiarite, non ho potuto evitare di constatare quanto anche nel Messiah Savall non perda il suo tocco mediterraneo. Forse persino lontano da una visione enfatica e maestosa, l’oratorio si è naturalmente espanso nella candida chiesa salisburghese, trovando un peculiare equilibrio tra intimità cameristica e forza espressiva, che spesso appariva smorzata. Questo è forse l’unico aspetto che non mi ha completamente convinto. A tratti la saldezza del ritmo avrebbe potuto effettivamente sciogliersi in una baldanza più energica, ma si sentiva che per poter raggiungere una maggiore espansività, sarebbe servita anche una maggiore energia, una maggiore freschezza da parte del direttore che, come accennavo forse proprio per questioni anagrafiche, non è mai giunta. Poco male, tanto coeso e centrato era l’oratorio nel suo scorrere tra una scena e l’altra senza soluzione di continuità, che il discorso musicale non si è mai interrotto durato tutte le oltre due ore e tre quarti di durata, comprensive di intervallo dopo il coro “All we like sheep have gone astray”.

A favorire questo equilibrio tra maestosità e intimità è stata poi la superba prova del coro preparato da Lluís Vilamajó, attentissimi alla chiarezza della pronuncia anche nei più concitati fugati, flessuosi nel compattarsi e nel rinfrangersi passando tra imitazioni e omofonie. Le riflessioni sulla figura del Messia raccolte da Charles Jennens nel composito testo dell’oratorio di Händel erano sempre perfettamente intellegibili e scolpite in uno studio sulla parola che non era mai avulso dall’ascolto attentissimo dell’orchestra, cui il coro era legato da un insieme quasi senza falle. Non parimenti entusiasmanti però i solisti. Il controtenore Nils Wanderer, chiamato al non facile ruolo di sostituire l’inizialmente previsto Raffaele Pe, è in difficoltà in gran parte dei passaggi. Buono il timbro nel registro centrale, in cui Wanderer riesce anche a trovare un’efficace espressività, ma appena il discorso si fa più concitato il cantante fatica a procedere, mentre quasi completamente assente è stato il registro grave, in cui la voce perdeva di timbro e di volume al punto di farsi inudibile anche sul solo continuo. Questo problema sul registro grave lo ha avuto anche il baritono Matthias Winckhler, che proprio laddove avrebbe potuto aprire e scavare nel registro grave, invece sfumava e si nascondeva, forse messo in difficoltà da un colore vocale insolitamente chiaro e leggero. Questa leggerezza, tuttavia, gli è tornata molto comoda nelle splendide agilità, sgranate senza affanno e con chiarezza. Vocalmente meno prestante, ma dall’ottimo carattere il tenore Martin Platz, animato da una bella espressività indomita, che si scontrava a volte con una certa scattosità e nervosa. Tra i solisti si stagliava però Rachel Redmond, soprano scozzese dal timbro limpido e argentino, che ha affrontato con bella proiezione, intenzioni musicali ben condotte e disinvoltura tecnica tutte le sue parti, riuscendo a convincere pienamente per la sobria freschezza che ben si associava alle sue arie.

Mi ha sorpreso, e non per questioni di abilità, la scelta dei solisti. Con l’eccezione parziale di Redmond, non ho trovato quasi punti di contatto tra colori e approccio di coro e orchestra e quelli dei solisti, un distacco che non credo intenzionale e che limitava l’efficacia dei numerosi numeri solistici che si alternavano agli altrimenti meravigliosi momenti corali e strumentali. Un’unica nota di perplessità su quello che comunque è stato un concerto splendido.

Per ringraziare il pubblico più che entusiasta, Savall ha offerto il Da pacem domine di Arvo Pärt, dedicandolo alle vittime del conflitto sanguinoso in Ucraina che ancora oggi prosegue senza tregua.

Alessandro Tommasi

La locandina

Direttore Jordi Savall
Soprano Rachel Redmond
Controtenore Nils Wanderer
Tenore Martin Platz
Basso Matthias Winckhler
Le Concert des Nations
La Capella Nacional de Catalunya
Programma:
Georg Friedrich Händel
Messiah HWV 56

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