Milano: i fantasmi di Boris
Tredici minuti di applausi – cordiali ma non calorosi come ci sarebbe aspettati – più i sei per il Presidente Mattarella, mettono il sigillo sun un Sant’Ambrogio per molti versi esemplare; pubblico della prima non avvezzo all’ opera russa? Probabilmente, ma il Boris Godunov inaugurale era stato annunciato tre anni fa, come ricordava il sovrintendente Meyer – oggetto tra l’altro di un attacco volgare e in contrattempo da parte di Vittorio Sgarbi, ospite della serata, che alla guida della Scala vorrebbe un italiano – e il tempo per prepararsi, volendo, c’era tutto.
Perfettamente centrata la scelta della versione del 1869, la prima, senza l’atto polacco e la foresta di Kromy, asciutta, tutta concentrata sui tormenti dello zar che ascende al trono dopo l’assassinio dell’erede legittimo Dmitrij, figlio di Ivan il Terribile.
Delitto e castigo; i fantasmi del passato che tormentano il presente: al centro di tutto Boris, lo zar che incarna paradigmaticamente , il potere che esalta le apparenze e al contempo schiaccia la coscienza.
Su tutto, cosi come nella tragedia di Puškin – la fonte letteraria del libretto insieme alle Storie dello Stato Russo di Karamzin – il peso di un infaticidio le cui responsabilità restano comunque sospese; il pensiero corre a Shakespeare del Macbeth e del Riccardo III.
Anche la musica di Musogrskij è improntata ad un espressionismo scabro ed anticipatore di quanto verrà nella produzione, non solo russa, che seguirà e si incardina ad atmosfere sospese, a frasi non dette, il tutto su arditezze armoniche e contrappuntistiche dirompenti.
L’antizarismo – il motivo vero per il quale l’ Ur-Boris fu rigettato dalla censura; il Potere teme la Verità – serpeggia nel corso della narrazione: alla fine il popolo sembra vincere e la “realtà” dei fatti sembra ristabilita con la morte dello zar delirante, ma sarà davvero così? Il colpevole è davvero Godunov?.
Kasper Holten centra perfettamente l’obbiettivo mettendo in scena un Boris sempre in bilico fra lucidità e follia.
Lo spazio scenico immaginato da Es Devlin – i costumi geometrici ed evocatori sono di Ida Marie Ellekilde e le luci livide di Jonas Bøgh – ha il suo punto focale nella pergamena sulla quale Pimen scrive le sue cronache delle vicende narrate; sul fondo una mappa animata – i video sono di Luke Halls – della Russia che va disgregandosi man mano che il regno di Boris si sgretola.
Holten rende visibili gli spettri che perseguitano lo zar, primo fra tutti quello dello zarevic insanguinato e sempre presente, ma anche quelli di altri bambini morti, vittime innocenti. Non solo: il regista danese rende palpabile la dicotomia di Boris che nei primi due atti è rappresentato in un contesto volutamente calligrafico e in certo senso “tradizionale”, mentre il terzo e quarto atto entrano direttamente nella mente sconvolta dello zar – che nel privato smette le vesti regali per indossare abiti moderni – proiettando in scena il delirio psichico che lo tormenta.
Funziona tutto, tanto da perdonare la scivolata finale, davvero inutile, con Boris assassinato da due sicari sotto gli occhi di un Grgorij-falso Dmitrij ghignante.
Riccardo Chailly è protagonista del suo miglior Sant’Ambrogio di sempre e, complice un’ Orchestra lin gran splovero, rende l’impaginato musorsgkiano attingendo ad una tavolozza di colori capace di spazzare via in un attimo la “monocromaticità” che a detta di alcuni, a torto, lo pervade.
Tempi volutamente compressi, dinamiche ferrigne, improvvise fiammate, scarti di metronomo minuscoli eppure percettibili rendono il narrato con balenante vividezza.
Nel ruolo-titolo giganteggia Ildar Abdrazakov, voce di bellezza straordinaria e dalla presenza scenica dirompente. Il basso russo incarna perfettamente i tormenti dello zar forse infanticida restituendoli attraverso un fraseggio screziato da mille accenti, cantando con intelligenza tutto ciò che è scritto. La morte di Boris, tutta in piano e pianissimo, è un capolavoro di interpretazione.
Ain Anger disegna un Pimen convincente anche se forse un po’ leggero dal punto di vista strettamente vocale, mentre sontuoso e il Varlaam lontano da ogni macchiettismo di Stanislav Trofimov.
Esce indenne e con onore dalle impervietà della tessitura a lui riservata Yaroslav Abaimov, che dà voce e corpo ad uno Jurodivyi – il Folle in Cristo – trasognato e disperatissimo, così come Dmitry Golovnin è ottimo Grigorij Otrepev.
Bravi davvero anche tutti gli altri ovvero Norbert Ernst (Vasilij Šujskij), Alexey Markov (Ščelkalov), Alexander Kravets (Misail), Maria Barakova (L’ostessa della locanda), Lilly Jørstad (Fëdor), Anna Denisova (Ksenija), Oleg Budaratskiy (Pristav), Roman Astakhov (Mitjucha) e Vassily Solodkyy (un boiardo di corte).
Sugli scudi il coro preparato da Alberto Malazzi e le Voci bianche dell’Accademia del Teatro alla Scala dirette da Bruno Casoni.
Trionfo strameritato per Abdrazakov e degli altri applausi si è già detto.
Alessandro Cammarano
(7 dicembre 2022)
La locandina
Direttore | Riccardo Chailly |
Regia | Kasper Holten |
Scene | Es Devlin |
Costumi | Ida Marie Ellekilde |
Luci | Jonas Bøgh |
Video | Luke Halls |
Personaggi e interpreti: | |
Boris Godunov | Ildar Abdrazakov |
Fëdor | Lilly Jørstad |
Ksenija | Anna Denisova |
La nutrice di Ksenija | Agnieszka Rehlis |
Vasilij Šujskij | Norbert Ernst |
Ščelkalov | Alexey Markov |
Pimen | Ain Anger |
Grigorij Otrepev | Dmitry Golovnin |
Varlaam | Stanislav Trofimov |
Misail | Alexander Kravets |
L’ostessa della locanda | Maria Barakova |
Lo Jurodivyi | Yaroslav Abaimov |
Pristav, capo delle guardie | Oleg Budaratskiy |
Mitjucha, uomo del popolo | Roman Astakhov |
Un boiardo di corte | Vassily Solodkyy |
Orchestra e coro del Teatro alla Scala | |
Coro di Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala | |
Maestro del coro | Alberto Malazzi |
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