Venezia: Orfeo e Euridice tra Foscolo e Keats
Esiste l’opera perfetta? Certamente no, ma alcune la perfezione la rasentano e Orfeo e Euridice è tra queste.
Nel superamento del dettato metastasiano, con la sua rigida alternanza di arie e recitativi, Gluck opera un rivolgimento radicale nel teatro in musica della seconda metà del Settecento spalancando la porta a quello che accadrà, qualche decennio più tardi, ad opera di Spontini e Cherubini e poi con la definitiva rivoluzione wagneriana e la consacrazione di un teatro drammaturgicamente vicino al vero, prescindendo naturalmente dai soggetti trattati.
Il mito di Orfeo è all’origine stessa dell’opera – basti pensare alle due Euridice di Peri e Caccini entrambe su libretto del Rinuccini per passare poi per Monteverdi in una sorta di affabulamento che conduce alla sua scotomizzazione per mano di Offenbach – esattamente per il tema che tratta, Amore e Morte.
Così come Gluck riporta la narrazione musicale ad un’essenzialità densa di contenuto – avverrà lo stesso, pochi anni dopo, nella sua Alceste – Pier Luigi Pizzi, eterno ragazzaccio, lavora come come sovente gli capita in questa fase della sua carriera “per sottrazione”, realizzando uno spettacolo di esemplare pulizia formale e in completa sintonia con la musica.
Tutto avviene in un cimitero che ricorda quello dei Sepolcri foscoliani, il cipresso diviene Leitmotiv, ma anche le atmosfere dell’Ode su un’urna greca di Keats; sullo sfondo si susseguono fugaci proiezioni di cieli fuggevoli che alternano nubi a squarci di sereno per lasciare momentaneamente il posto, nel secondo atto, alle fiamme turbinanti dell’Erebo; sul finale lieto appare la facciata della Fenice a ricordare che oltre all’amore è il teatro a trionfare sulla morte.
Il gesto scenico è scarnificato a rendere l’essenza piena del dramma, con il coro ai lati del proscenio e vestito di abiti plumbei a richiamare quelli dei corteggi dei monumenti funebri canoviani.
La Musica è sempre in scena, sottoforma di strumentisti-mimi – i ragazzi bravissimi di Asolo Musica – che interagiscono con i danzatori senza volto che si muovono sulla coreografia di Marco Berriel; tutto è illuminato dal disegno di luci giustamente algido e assai ben calibrato di Massimo Gasparon.
Ottavio Dantone, e con lui l’Orchestra in versione storicamente informata, si rende protagonista ancora una volta di una prova maiuscola riportando sapientemente l’impaginato alle sue origini il tutto in perfetta sintonia con il dettato registico.
La decisione di sopprimere quasi del tutto i balletti è comprensibile nell’ottica di sintesi che si è scelto di percorrere anche se un po’ mancano, ma la concertazione di Dantone – tutta imperniata su scelte ritmiche imperiose e agogiche stringenti e capaci di spazzar via in un istante decenni di malinteso “romanticismo” del tutto alieno a all’estetica gluckiana – è complessivamente da incorniciare.
Cecilia Molinari, padrona di una linea di canto impeccabile e dotata di mezzi vocali cospicui, è Orfeo dal fraseggio appassionato, mentre Mary Bevan incarna un’Euridice vagamente capricciosa ma capace di sciogliersi in tenerezze languide poggiando tutto su una voce di grana finissima.
Assai bene fa anche Silvia Frigato, Amore incantevole – e che tra l’altro Pizzi veste con maliziosi calzini rossi a richiamare un suo stretto contatto con gli Inferi – tutto giocato su un timbro di cristallina purezza.
Corretto il Coro preparato da Alfonso Caiani.
Applausi meritati per tutti, a ricordare che non sempre la “tradizione” è museo.
Alessandro Cammarano
(28 aprile 2023)
La locandina
Direttore e maestro al cembalo | Ottavio Dantone |
Regia, scene e costumi | Pier Luigi Pizzi |
Light designer | Massimo Gasparon |
Assistente alla regia e movimenti coreografici | Marco Berriel |
Personaggi e interpreti: | |
Orfeo | Cecilia Molinari |
Euridice | Mary Bevan |
Amore | Silvia Frigato |
Musici mimi | Asolo Musica |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | |
Maestro del coro | Alfonso Caiani |
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