Roma: la scintilla divina di Leoš Janáček

Dopo aver conquistato il Leone d’oro per il teatro alla Biennale di Venezia, il regista Krzysztof Warlikowski debutta al Teatro dell’Opera di Roma con un nuovo allestimento dell’ultimo capolavoro di Leoš Janáček, Da una casa di morti, in coproduzione con il Covent Garden, il Théâtre de la Monnaie di Bruxelles e l’Opéra di Lione, dove è andato in scena nel 2018. E così continua al Costanzi l’esplorazione di un grandissimo compositore del Novecento, che lavorava sulla realtà concreta, mettendo in prosa il dramma musicale, aprendo la lirica al mondo reale con gli aspetti più torbidi, violenti, eppure carichi di mistero dell’umanità contemporanea. Nell’inverno 2022, un primo titolo di Janáček era andato in scena all’Opera di Roma per la regia di Richard Jones sotto la direzione di David Robertson. Era la Kát’a Kabanová, l’opera in tre atti composta nel 1918, sul dramma di una Bovary del Volga che per sfuggire alle angherie di una suocera tremenda, e all’insulsaggine di un marito inetto, si suicida gettandosi nelle acque gelide del fiume. L’anno prossimo vedremo l’allestimento di un altro capolavoro di Janáček, la Jenufa. Ma intanto, quest’anno, è la volta di Z mrtvého domu, l’ultima sua o pera composta nell’anno della morte, il 1927, a partire da una straziante rilettura e dall’adattamento che egli stesso fece delle Memorie da una casa di morti, il romanzo autobiografico di Fedor Dostoevskij sulla detenzione in Siberia, traducendolo dal russo e scrivendo egli stesso il libretto.
Warlikowski ha scelto i colori lividi di un indefinitito carcere contemporaneo, forse in Texas, forse a Novisibirsk, dove il verde ghiaccio e il grigio ferro che avevamo già visto all’Opéra Garnier per l’allestimento di A Quiet Place di Leonard Bernstein, tornano alla grande per dipingere la disperazione di un’umanità desolata, di criminali, balordi, assassini, delinquenti, stupratori e violenti, costretti a vivere reclusi per scontare gli anni di pena, e però pronti a rivivere nel sogno, nei ricordi, nel delirio di una rappresentazione teatrale, grazie a una mise en abyme fra le sbarre, le loro colpe, quasi fossero in cerca di catarsi per espiare il male e liberarsi dal rimorso. Un grande sipario in alluminio proietta lo spettatore in uno spazio metallico, freddo, inaccessibile come le mura di un carcere di sicurezza, mentre un parallelepipedo mobile serve ora da segreteria del carcere, ora da palcoscenico sul palcoscenico, con effetti luminescenti proiettati sulla platea. S’alza il sipario ed ecco un cestista in tuta e canottiera che si cimenta a centrare un canestro con un pallone, ripetendo cento volte gli stessi gesti apparentemente uguali ma dagli effetti sempre imprevedibili. A un certo punto, mentre parte l’ouverture di quest’opera epica e solenne sull’umanità più abietta, da video sul fondo della scena spunta il volto di Michel Foucault, il filosofo di sorvegliare e punire, della follia nell’età classica, della repressione poliziesca e del sistema carcerario, che col suo cranio calvo e gli occhialetti di metallo parla muovendo le labbra mute, mentre i sottotitoli condensano l’essenza della sua filosofia del potere.
Niente di più lontano dal pellegrinaggio nell’animo di Dostoevsky, dal suo viaggio nella katarga siberiana, dove visse gli anni più tremendi della sua vita, recluso per l’accusa di cospirazione anti zarista, dopo aver preso parte agli incontri di un circolo sovversivo di ispirazione socialista, scampando per un pelo alla fucilazione. No, qui, la casa di morti di Janacek è popolata di vecchi adiposi che si aggirano in tuta, fra agenti in divisa rossa che fanno pensare ai detenuti di Guantanamo, e galeotti di lungo corso dal volto tatuato che indossano i brandelli di un abito da sposa, come lo struggente Aljeja, il giovane tartaro interpretato dal tenore Pascal Charbonneau, mentre il dissidente Gorjančikov, affidato al basso baritono Mark Doss, entra in scena in giacca cravatta e gilet, col suo aplomb da aristocratico pronto a farsi trucidare dai lazzi violenti, feroci e brutali degli altri detenuti. Eh sì perché quest’opera senza trama, senza personaggi, senza narrazione lineare, è un’opera corale, un racconto collettivo, un’anti opera in cui prevale lo studio dei caratteri psicologici, l’analisi dello sguardo reciproco che entro uno spazio ristretto fulmina e redime, condanna e assolve, dilatando a dismisura i confini reali e immaginari di quel luogo di depravazione e sofferenza, sino a farlo rovesciare, attraverso l’illusione teatrale, nel suo perfetto contrario, in uno spazio paradossale di redenzione e di umanità, visto che i detenuti della casa di morti rivivono il loro dramma ricordandolo, parlandone, mettendolo in scena attraverso altri drammi, come quello di Don Giovanni, il seduttore impunito. “In ogni creatura vi è una scintilla di Dio”, scriveva Janáček a mentre componeva quest’opera potente che eglli annunciava come “la mia opera nera”, sentendo “di scendere un gradino dopo l’altro fino in fondo, fino ai più miserabili degli uomini”, tant’è che Milan Kundera ( altro grande genio ceco che ebbe Janáček un padre elettivo, al punto da tenerne la foto nel suo studio di Montparnasse accanto a quella del padre pianista, che ne fu l’allievo), la considera un reportage profetico nell’universo concentrazionario dei gulag sovietici e dei lager nazisti del totalitarismo del Novecento.
E infatti oltre l’affiatamento della compagnia, oltre la cura scenica dei cantanti attori, specialisti come il tenore Stefan Margita nel ruolo di Luka Kuzmič, o il basso Leigh Melrose in quello di Siškov, per non parlare di Aleš Jenis in quello di Don Giovanni, e del baritono Clive Baylei che interpreta il direttore del carcere, basta affidarsi ai suoni di Janáček, alle melodie tagliate sul parlato (peccato non poter seguire il testo originale del libretto nei sovratitoli), alle fibre intense e potenti di una partitura dall’orchestrazione sfavillante, perfettamente restituita dal russo Dmitry Matvienko alla guida dell’orchestra romana, per rendersi conto dell’assoluto genio musicale di un compositore originale, inconfondibile, in grado di utilizzare materiale popolare, di attingere alla rumoristica di scena, di tradurre in suoni il rumore di asce, seghe, catene, coltelli, e di inventare la musica nuova con un’autonomia estetica talmente strabiliante che ancora oggi colpisce, sorprende senza finire di ammaliare.

Marina Valensise
(25 maggio 2023)

La locandina

Direttore Dmitry Matvienko
Regia Krzysztof Warlikowski
Drammaturgo Christian Longchamp
Scene E Costumi Małgorzata Szczęśniak
Luci Felice Ross
Video Denis Guéguin
Movimenti Coreografici Claude Bardouil
Maestro Dei Combattimenti Renzo Musumeci Greco
Personaggi e interpreti:
Alexandr Petrovič Gorjančikov Mark S. Doss
Aljeja, Giovane tartaro Pascal Charbonneau
Filka Morozov Štefan Margita
Il grande prigioniero Erin Caves
Il piccolo prigioniero Nikita / Čekunov / Il cuoco Lukáš Zeman
Il Direttore della prigione Clive Bayley
Skuratov Julian Hubbard
Il prigoniero ubriaco Eduardo Niave *
Kedril Marcello Nardis
Un prigioniero fabbro Aleš Jenis
Il giovane prigioniero Paweł Żak
Una prostituta Carolyn Sproule
Šapkin Michael J. Scott
Šiškov Leigh Melrose
Čerevin Christopher Lemmings
Il vecchio prigioniero Colin Judson
Prima guardia Michael Alphonsi
Voce dalle steppe Luca Battagello
Terza guardia Antonio Taschini
*Dal Progetto “Fabbrica” Young Artist Program Del Teatro Dell’opera Di Roma
Orchestra E Coro Del Teatro Dell’opera Di Roma
Maestro Del Coro Ciro Visco

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.