Il libro: Gran Teatro Italia

Gran Teatro Italia (Garzanti, pagg. 192, € 16,00) è certamente un viaggio sentimentale nel Paese del melodramma, come dice il sottotitolo. Ma è anche e forse soprattutto una sintesi cronologico-critica di quarant’anni di frequentazione intensiva dell’opera nel Paese in cui essa ha avuto i natali. Certo, limitata ai luoghi delle rappresentazioni di cui l’autore, Alberto Mattioli, ha deciso di parlare in questa sua geografia disegnata dal cuore non meno che dal cervello. Che magari tralascia qualche istituzione storica di non secondaria importanza (nulla si trova del Carlo Felice di Genova, ad esempio, o del Verdi di Trieste, perché al cuore non si comanda), ma percorre la penisola da Venezia a Palermo e da Torino a Napoli, volentieri soffermandosi nella provincia marchigiana o in quella delle sue origini emiliane, per offrire al lettore una singolare doppia prospettiva di notevole interesse.

Da un lato, quindi, lo sguardo e la narrazione riguardano i teatri in quanto spazio della rappresentazione e allo stesso tempo luogo della nascita e dello sviluppo della mitologia culturale chiamata melodramma, all’incrocio nazional-popolare fra i compositori, gli interpreti, i modi di fare spettacolo. Teatri come epicentro della vita italiana almeno per tre secoli, adesso un po’ meno e con ruoli e scopi molto diversi. Un percorso che parte dal 1637 della prima sala pubblica al mondo, il San Cassiano di Venezia, e approda al Nuovo Teatro del Maggio Fiorentino, inaugurato solo pochi anni fa, inesorabilmente bocciato dal punto di vista della fungibilità e dell’efficienza rispetto agli scopi pratici delle rappresentazioni di teatro per musica. In un fuoco di fila di aneddoti, curiosità, citazioni dotte sparse con nonchalance e di ricordi spesso molto personali su questi luoghi. Tutti a loro modo “mitici”, talvolta da altri (ma non dall’autore) pomposamente definiti “templi”

Su questa retorica, Mattioli lascia briglia sciolta a un’ironia resa ancor più tagliente dalla sua scrittura di brillante colloquialità, smantellando con acribia l’idea che aleggia in particolare intorno alla Scala, molto apoditticamente definita “il più importante teatro d’opera del mondo”. La stilettata finale, dopo le acuminate e documentalmente inoppugnabili contestazioni socioculturali e musicali nello specifico capitolo, giunge alla pag. 161, dove si parla del Teatro Massimo di Palermo e dei Vespri Siciliani di Verdi in lingua originale francese colà rappresentati – per la regia di Emma Dante – nel gennaio 2022 (https://www.lesalonmusical.it/palermo-nei-vepres-emma-dante-fa-vivere-lantropologia-palemitana/). «Non nell’orrenda traduzione – chiosa Mattioli – che sopravvive soltanto nei teatri di provincia, per esempio alla Scala, che in italiano li ha eseguiti nel 2023».

Del resto, è inutile cercare il nome di Dominique Meyer fra quelli dei sovrintendenti che vengono citati: al massimo, lo si trova definito «il francese che attualmente presiede ai destini della Scala». E al proposito, considerando i molti elogi per Carlo Fuortes, già sovrintendente dell’Opera di Roma e ora libero dopo le dimissioni da ad della Rai e la rinuncia al San Carlo di Napoli, non sembra abusivo supporre che Mattioli gradirebbe alquanto un suo arrivo al Piermarini.

Definito “librino” dal suo autore (così nelle autopromozioni su Facebook – dove da tempo fa furore per un vasto pubblico di ammiratori), questo saggio molto discorsivo e molto coinvolgente delinea dunque una sorta di breve storia di teatri italiani molto amati o in qualche raro caso sopportati ma comunque frequentati per dovere d’ufficio. Un tratteggio essenziale eppure a suo modo esauriente, che spiega bene l’indomabile passione che anima il critico e giornalista modenese, fermamente convinto – beato lui – che esisterà comunque e sempre un futuro per il genere operistico. E che i giovani possano esserne sedotti tanto quanto lo sono da Instagram e da TikTok.

E tuttavia, Mattioli non è solo un melomane in servizio permanente effettivo, un sofisticato e colto connoisseur dell’opera e del suo mondo dalla penna affilata e un po’ piaciona (ma pollice verso per l’uso di “debuttare” in forma transitiva – “debuttare Falstaff” – sorprendente concessione all’orrida neolingua degli uffici stampa e dei portavoce dei cantanti). È anche un lucido analista e un critico acuminato, sostenitore di un principio fondamentale, solo in apparenza paradossale (e pienamente condivisibile): nel XXI secolo l’opera sarà salvata da chi sa metterla in scena svelandone il senso più vero e profondo, parlando alla sensibilità del pubblico di oggi, molto più che da chi la canta. Incrollabile in questa convinzione e sempre polemico con il mondo chiassoso dei passatisti contestatori che hanno per motto “Povero Verdi” (o Wagner, o Mozart, o Puccini…), Mattioli disegna quindi in questo libro – come si accennava all’inizio – un profilo critico dell’attività operistica italiana a partire dalla metà degli anni ’80, una sorta di “pagella storica” di alcune Fondazioni lirico-sinfoniche. Fra i promossi: la Fenice, l’Opera di Roma, il Massimo di Palermo. Sufficienza di stima sulla base di positive esperienze gestionali e artistiche ormai lontane nel tempo, ovvero non ancora consolidate in continuità: il Regio di Torino, il Comunale di Bologna. Un grande avvenire tutto da costruire guardando al passato: il San Carlo di Napoli. Desolata contemplazione di uno sfacelo gestionale che sembra un inesorabile ordine seriale, dopo i lontani anni d’oro: il Maggio Fiorentino.

Quanto alla Scala, nessuna particolare simpatia a proposito delle proposte più recenti e pietra tombale sulla gestione del Maestro per antonomasia, così sintetizzata: «L’asfissiante provincialismo autoreferenziale della Scala del ventennio mutiano».

Sintomatico dell’approccio passionale-razionale di Mattioli è il discorso sull’Arena di Verona, uno dei luoghi nei quali trova sublimazione il carattere popolare dell’opera e della sua fortuna. Il nostro s’intenerisce raccontando la sua prima volta da ragazzo fra le antiche pietre, accompagnato dal papà in una sorta di iniziazione culturale e sociale, e usa parole dolci nel descrivere la cosiddetta magia areniana del prima e del dopo spettacolo, della quale sembra subire in pieno il fascino per la verità un po’ decaduto. Della serie: esercizi di memoria. Ma arrivando ai fatti artistici, lo sguardo perde ogni indulgenza. Dopo avere elencato i pochi spettacoli significativi degli ultimi anni, che poi secondo Mattioli sono uno e mezzo, arriva la sciabolata. Nell’anfiteatro romano di Verona, dice, per motivi prettamente economici «restano arroccati sulla linea del Piave di Zeffirelli, che è come se a Hollywood si pensasse che l’estetica giusta per il kolossal sia ancora quella di Ben-Hur». Se ci fosse, sipario sull’Arena.

Cesare Galla

Grazie a Tag43 per la gentile concessione alla pubblicazione.

Alberto Mattioli
Gran Teatro Italia
Garzanti, pagg. 192, € 16,00

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