Verona: Aida ai tempi del trash
Le Frecce Tricolori, il coro vestito da bandiera schierato al proscenio a cantare l’Inno di Mameli, l’ostensione di Sophia Loren, gli “ospiti illustri” – da Beatrice Venezi a Jerry Calà, da Lino Banfi a Orietta Berti senza dimenticare Iva Zanicchi, per citarne alcuni, ma erano di più – e il pubblico, previdentemente erudito da un foglietto con le istruzioni per la serata in cui si raccomandavano “standing ovation da mostrare al pubblico internazionale” e altre chicche a favore della Mondovisione.
Ebbene tutto questo, già di per sé biasimevole – agli spettatori presenti all’interno dell’anfiteatro è stato risparmiata la diretta dal tappeto rosso, per fortuna – non è stato nulla in confronto a quello che si è visto e ascoltato, dopo una ventina di minuti di ritardo dovuto ad una sgrullata di pioggia, quando l’opera è iniziata.
Ad allestire l’Aida del Centenario – o meglio del centesimo festival, visto che il secolo del festival areniano era già stato correttamente celebrato nel 2013 – è stato chiamato Stefano Poda, al suo debutto in un grande spazio all’aperto, che dell’allestimento cura regia, scene, costumi, luci e coreografia: il risultato è tale da far rimpiangere la produzione storica del 1913.
Innanzitutto si deve dar conto del superamento della diatriba relativa al black-face: qui Aida è di tutti i colori e nel secondo atto veste pure una tunica a frange arcobaleno. Chissà se ai sette ministri e al Presidente del Senato presenti la scelta è piaciuta.
Poi Poda mette in scena un elefantiaco son et lumière senza nessun tentativo di introspezione, il tutto su un palcoscenico interamente ricoperto da un praticabile di metallo e plexiglass sul quale campeggia una manona animata e qualche lacerto di piramide; sulle gradinate nude i rottami di una cosa che somiglia ad un’astronave e una colonna corinzia spezzata.
La manona dovrebbe simboleggiare l’oppressione del potere e, come accade spesso negli spettacoli di Poda, potrebbe essere riciclata in un Don Carlos o in un Boris Godunov futuri, Dio ne scampi.
Per il resto è una tragica apoteosi di glitter e paillettes, di laser e fumo, con un pallone argenteo in balia degli elementi atmosferici – il Trionfo e talmente luccicante da causare un principio di uveite –, di caschi da motocilista e dei soliti cappottoni e tuniche in cui predomina l’usuale bianco e nero podiano, ovviamente illuminato da luci rigorosamente di taglio.
Dopodiché il nulla, con alcuni scivoloni qua e là: le “danze” in stile zombie party sono agghiaccianti così come lo sono Amneris che amoreggia con delle mummie all’inizio del secondo atto e Amonasro e Ramfis vicini vicini quando si chiede pietà per i prigionieri.
Per mantenere l’atmosfera Star Wars nel terzo atto si assiste alla ricerca di Obi Wan Kenobi da parte di un manipolo di figuranti armati di spada laser.
Con tutta probabilità tutto questo costa non poco ed è altrettanto ragionevole supporre che questa Aida resterà in cartellone parecchi anni sancendo una ricerca di “pubblico nuovo” da avvicinare all’opera: leggasi a beneficio del turista che voglia andare a teatro senza dover pensare ma felice di farsi abbacinare da luci e colori.
Luci ed ombre sul versante musicale.
Marco Armiliato, chiamato all’improbo compito di gestire masse elefantiache e mal disposte, si impegna con tutto il mestiere – solidissimo – che possiede per far quadrare gli equilibri tra buca e palcoscenico, vincendo sostanzialmente la sfida.
Certo il primo atto è letargico tanto i tempi sono sostenuti e le dinamiche appiattite, però da lì in avanti la direzione si incardina su ritmi condivisibili – all’Arena non si può forzare il metronomo pena lo sfacelo – ritrovando buoni equilibri.
Nella compagnia di canto svetta solo lei, l’eroina eponima, ovvero Anna Netrebko, capace di cesellare ogni singola frase – soprattutto quando canta piano e regala filati rapinosi belli da togliere il fiato – e dare colore a ciascuna parola.
Yusif Eyvazov è come sempre: canta bene a dispetto della sua voce oggettivamente brutta e porta a casa onorevolmente la serata anche con alcune belle mezzevoci nel duetto finale.
Il Ramfis di Michele Pertusi è ancora una volta una lezione di canto e di fraseggio mentre Olesya Petrova è Amneris parecchio sotto il minimo sindacale.
Deludente anche l’Amonasro di Roman Burdenko, sbiancato e mai incisivo mentre Simon Lim è un Re di buona grana.
A completare il cast la Sacerdotessa precisa di Francesca Maionchi e il Messaggero sicuro di Riccardo Rados.
Bene il coro preparato da Roberto Gabbiani.
Il pubblico gradisce, applaude spesso a scena aperta e alla fine riserva consensi generosi per tutti.
Alessandro Cammarano
(16 giugno 2023)
La locandina
Direttore | Marco Armiliato |
Regia, scene, costumi, luci, coreografia | Stefano Poda |
Personaggi e interpreti: | |
Il Re | Simon Lim |
Amneris | Olesya Petrova |
Aida | Anna Netrebko |
Radamès | Yusif Eyvazov |
Ramfis | Michele Pertusi |
Amonasro | Roman Burdenko |
Un Messaggero | Riccardo Rados |
Una Sacerdotessa | Francesca Maionchi |
Orchestra, coro e corpo di ballo dell’Arena di Verona | |
Maestro del coro | Roberto Gabbiani |
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