Bolzano: le onde vibrazionali di 11.000 Saiten
Se abbiamo imparato che la musica si divide in due parti, da un lato quella consonante (cioè la bellezza del Paradiso) e dall’altro quella dissonante (ossia le pene dell’Inferno), prepariamoci ad aprire il nostro orizzonte perché il signor Haas ci ha mostrato che esiste una terza via la quale, attraverso la microtonalità, conduce ad un nuovo ascolto vibrazionale.
Questa epifania – sorprendente per la maggior parte delle persone che frequenta le sale da concerto ma in realtà inserita nelle ricerche che già compositori come Wyschnegradsky, Ligeti e Scelsi avevano promosso nel secolo precedente – ha pervaso il pubblico della prima mondiale di 11.000 Saiten, brano della durata di 66 minuti che l’austriaco Georg Friedrich Haas ha scritto per cinquanta pianoforti accordati con sfasatura microtonale e orchestra da camera. L’opera è stata commissionata nel 2020 ed eseguita in prima assoluta solo ora causa pandemia dal Bolzano Festival presso i padiglioni della Fiera del capoluogo altoatesino, luogo la cui ampiezza era necessaria per ospitare cento esecutori: cinquanta pianisti sui verticali forniti dal marchio cinese ©Hailun assieme ad altrettanti strumentisti della Mahler Academy Orchestra. La disposizione si realizzava su due ampi cerchi concentrici, quello esterno per i pianoforti, voltati verso i muri perimetrali, quello interno per gli orchestrali, rivolti al contrario verso il centro del padiglione dove sedeva il pubblico (300 persone) e dove svettata una colonna di schermi con il timer utile per la conduzione della performance. Il luogo inusuale, l’organico sovrabbondante per i canoni classici e la disposizione singolare aumentavano la curiosità dell’uditorio, tra le cui fila sedeva lo stesso compositore che si preparava all’ascolto come ad un momento di meditazione.
Dieci secondi di countdown e una nuova pagina di storia della musica ha inizio. I primi suoni fanno parte della nostra zona di comfort, arpa e clavicembalo dialogano arpeggiando con serenità mentre un morbido vibrato degli archi li sostiene, fino a quando i timpani irrompono con un segnale che mette in azione i pianisti, cinquanta tastiere che affrontano una scala cromatica infinita a velocità sfasate, e da qui tutto si trasforma. Il sistema tonale diventa libero, la percezione sonora diventa liquida e nel generoso riverbero (appositamente cercato) dell’ambiente in cui ci troviamo non si riconoscono più armonie di riferimento, strutture melodiche, forme architettoniche.
L’orecchio non riconosce i timbri dei singoli strumenti presenti, percepisce solo suoni primordiali, ghiaccio, buio, stelle. Tutto è alieno, tutto è nuovo, non c’è nulla su cui potersi aggrappare per procedere ad un ascolto educato, filtrato dalle conoscenze pregresse di secoli di teorie musicali e questo, di cui facciamo noi stessi esperienza in prima persona, avviene nella maniera più naturale possibile, risultando inaspettatamente semplice nella fruizione. Sono onde di vibrazioni che aumentano di frequenza o si allontanano nello spazio inteso come universo senza gravità, sono asteroidi che si scontrano e collassano, sono sensazioni di calore che cambia. L’accordatura a quarti di tono, diversa per ciascuno dei 50 pianoforti di 11.000 Saiten, non è il prodotto da esibire bensì il mezzo per stravolgere il suono e di conseguenza la sua percezione, intesa come un flusso che ci attraversa.
Nella forma generale del brano – che, anche se una struttura in senso classico non vuole averla, nel solo fatto di esistere in un tempo che scorre la assume per forza di cose – si riconoscono tre parti distinte affidate ai pianoforti: un inizio rombante nelle scale cromatiche, una parte centrale (esattamente posta a 33 minuti) svuotata di suono dove affiorano lontani accordi di stampo cadenzale (l’unico punto di tutta l’opera in cui si riconosce chiaramente la voce propria del pianoforte), una conclusione aspra di glissandi feroci reiterati più volte sino ad un lontano rigurgito finale. Il resto scorre in un flusso percettivo sempre mutevole, a parte nella seconda metà dell’opera in cui il livello sonoro potente e prolungato, il registro comune a quasi tutti gli strumenti ed un caos generalizzato porta, da un lato, ad una sensazione di disturbo e sofferenza che, conoscendo la poetica di Haas, potrebbe essere effettivamente voluta, ma dall’altro crea un tale coacervo stabile e prolungato di altezze e volumi da produrre una zona grigia che fatica a catturare l’attenzione dell’ascolto.
L’opera risulta molto interessante per il cammino musicale del XXI secolo. Rispetto alla sua precedente “limited approximations” (2010) per organico simile (sei pianoforti accordati per microtoni e orchestra) il suono delle tastiere è decisamente più straniante, sebbene Haas utilizzi in entrambe stilemi comuni quali arpeggi, ottave ribattute e trilli. Per un pubblico digiuno di contemporanea 11.000 Saiten va affrontata come un’esperienza puramente percettiva, senza alcun intento od obbligo di decodificazione, una sperimentazione sensoriale di musica intesa come azione sul suono che viene deformato, trasformato e restituito sottoforma di vibrazioni che trovano a loro volta un significato nella risposta epidermica di ciascuno di noi. In questo modo potrebbe capitarvi come ad una ascoltatrice di Bolzano, che al termine della performance ha chiesto al compositore: “Come mai non ho sentito dissonanze?”.
Monique Cìola
(1° agosto 2023)
La locandina
Mahler Academy Orchestra | |
50 Pianist* suonano su ©Hailun Pianos | |
Programma: | |
Georg Friedrich Haas | |
11.000 Saiten | |
per pianoforti accordati con sfasatura microtonale e orchestra da camera | |
Prima esecuzione assoluta |
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