Bruno Taddia: «Adoro il Cucciolone!»
Pavese, laureato “cum laude” in Filosofia Estetica all’Università di Milano, diplomato in violino al Conservatorio di Genova, ha frequentato il corso di Composizione Sperimentale con Bruno Zanolini presso il Conservatorio di Milano ed ha studiato canto con Paolo Montarsolo: Bruno Taddia è molto più che un artista.
Lo abbiamo raggiunto a ridosso del suo fortunato debutto come Sharpless al Puccini Festival di Torre del Lago
- Come e quando hai scoperto che il canto sarebbe stata la sua professione?
Ho sempre saputo che avrei fatto il musicista. Non so però spiegare bene come questa mia antica convinzione si concretizzò sul canto: ci sono state una serie di coincidenze favorevoli. Avendo deciso di fare il conservatorio fin da piccolo, sapevo che il mio futuro avrebbe avuto a che fare con la musica. Se qualcuno mi chiedeva, io rispondevo in questo modo. C’era, tuttavia, molta carne al fuoco, ovvero studiavo violino, successivamente si è aggiunta la composizione e, finito il liceo, mi sono iscritto a filosofia. Nel periodo del conservatorio, durante vari corsi estivi, io, abituato ad andare a teatro con i miei genitori fin da piccolo (avevo sei anni quando ho visto la prima opera), alla fine delle lezioni, quando si iniziava a “giocare” con la musica, tra un’improvvisazione e l’altra al pianoforte (o con vari strumenti), io ero quello che cantava o che raccontava le trame delle opere. Una sera mi capitò di andare a vedere La Cenerentola a Pavia con la regia di Paolo Montarsolo. Lo incontrai durante l’intervallo. Fui introdotto da Liliana, la sua straordinaria moglie che mi era stata presentata da conoscenti comuni. Era alto, imponente e signorile, fasciato in un meraviglioso smoking a doppio petto, mentre dal taschino “sbuffava” una pochette bianca, unico particolare estroso, in tanta tradizionale eleganza. Gli chiesi se potesse sentirmi perché da amante dell’opera, avevo sempre avuto, nel fondo del mio cuore, il desiderio di confrontarmi con la voce. Mi ascoltò con aria incuriosita. Inaspettatamente disse di sì, si cavò dalla tasca interna della giacca un biglietto da visita riccamente stampato, dandomi appuntamento per il giorno dopo nella sua casa di Milano, in Piazza Napoli. Mi recai allora a fare la mia prima audizione, ignaro di quello che sarebbe valso quel momento per il mio futuro. Cantai “Là ci darem la mano…” e “Deh vieni alla finestra…”.
“Se vuoi, ti prendo come allievo, però…- aggiunse- … continua tutte le cose che stai facendo e non pensare al canto. Sarà il nostro divertissement!”.
La sera andai a casa e dopo un consulto famigliare, i miei genitori appoggiarono la mia richiesta rispetto ad uno studio aggiuntivo. Non senza ironia, perché, dopo avermi chiesto l’impegno di terminare tutto quello che avevo cominciato, mia madre si girò verso mio padre e disse: “Giorgio, tra filosofia, violino, composizione e canto, ci stiamo assicurando la vecchiaia!” E si finì con una risata apotropaica. La risata fu, in realtà, effettivamente propiziatoria, perché, dopo qualche anno di studio con il mio grande Maestro, venni preso all’Accademia Rossiniana. Quello era il primo anno del famoso (ormai) Viaggio a Reims per i giovani. E venni scelto per Don Alvaro. Non solo: mi fecero fare il cover di Filippo per le prove di Gazzetta con Dario Fo. Piacqui molto a Dario e, subito dopo, lui mi chiese di fare Don Bartolo in Olanda nel suo famoso Barbiere di Siviglia. Lentamente mi affrancai sempre più dal violino e così cominciò tutto. Avevo naturalmente, dopo il diploma, iniziato un’attività come violinista e fu spontaneo scivolare nell’esclusiva attività canora. A questo proposito, forse, è divertente raccontare un episodio emblematico di questa trasformazione. Dopo un po’ di tempo dal mio debutto canoro, ricevetti una chiamata dall’Orchestra Sinfonica Giuseppe Verdi di Milano. Una ragazza gentile mi disse di chiamare da parte della direzione artistica chiedendomi la disponibilità per un concerto. “Volentieri!” risposi, sfregandomi le mani: ero libero nel periodo! La ragazza precisò “E’ un concerto diretto dal Maestro Chailly” Fantastico! E chi se lo aspettava! Doveva esser il mio giorno fortunato.” Chiesi quale fosse il programma “La quinta di Beethoven e Petrushka”. I miei sogni di gloria andarono in frantumi in un attimo. Tempo addietro, avevo fatto un paio di esperienze con loro come aggiunto nei violini. Era chiaro che non mi avevano cancellato dai loro elenchi! Sconsolato, risposi “Guardi, se volete, ve le canto…” Spiegato l’equivoco, tutto si risolse in una risata. E nella cancellazione del mio nome dagli elenchi degli aggiunti in Verdi!
- Dal Barocco al Novecento: quali sono i criteri che stanno alla base delle sue scelte di repertorio?
La mia passione è la musica. Per questo ho deciso di dedicare la mia vita alla sua scoperta. Una volta verificate le compatibilità della parte che mi viene proposta con le mie possibilità vocali e tecniche, inizia per me l’avventura. Essendo spesso stilistica, mi impone scatti tecnici per affrontare nuove sfide. Quest’ultime si presentano, in realtà, come una straordinaria occasione di crescita di conoscenza! E sempre sono la rivelazione di possibilità che in partenza non pensavo di avere. Compatibilmente, sempre, con le potenzialità della corda vocale!
- È laureato in Filosofia: quanto è importante il Logos nell’opera?
Per cantare, sembra, poco… (ride, ndr). Mi perdoni, sono un po’ birichino e non ho resistito alla battuta. La questione invece è tutt’altro che banale. Una premessa necessaria: l’opera è teatro, per me un vocabolo vale l’altro. Da qui possiamo partire per un breve cenno ad un argomento immenso. Dopo la conquista della posizione eretta, l’avvento più sconvolgente nella storia dell’uomo è stato l’affiorare del pensiero filosofico, ovvero di un pensiero che si impone di portare alla luce il significato più radicale della Verità. Per ragioni di spazio non possiamo dilungarci e mi rendo conto che, dicendo così, questa formulazione potrebbe sembrare un mito vuoto, vi chiedo per ora di credermi e secondare il mio ragionamento. Seguendo questa visione radicale della Verità, l’Occidente ha conquistato il mondo! Inventando cose meravigliose come l’anima, i concetti astratti della mente, il pensiero scientifico, l’etica, l’economia, il Cucciolone della Algida e la Settimana enigmistica! Ed è grazie a questo sapere veritativo che noi possiamo renderci conto oggi, incontrovertibilmente, che le vignette umoristiche sopra il Cucciolone o nella Settimana enigmistica sono totalmente cretine!
Non possiamo tuttavia non ricordare che contemporaneamente al sorgere della postura filosofica della cultura greca, si è sviluppata un’altra forma di sapere nella polìs, più dialettica e sensibile, il teatro. Il quale si presentava a tutti come una forma aperta di conoscenza. Chi può dire, infatti, incontrovertibilmente, se Edipo è colpevole o no? Dove sta la verità? Per questo è stato visto, in parte, con qualche sospetto, laddove vissuto come necessario dall’uomo greco. Secondo una antica tradizione Platone prima di consacrarsi alla filosofia, scriveva tragedie. Ma dopo aver sentito Socrate parlare, le bruciò tutte. Durante il rogo urlò: “Efesto, avanza così: Platone ha bisogno di te”. La tradizione sottolinea che, da quel momento, divenne filosofo. In questo rogo abbiamo la raffigurazione simbolica del distacco tra teatro e filosofia, laddove la storia della polìs ci mostra l’evidenza di quanto fossero fratello e sorella. Staccati l’uno all’altra nella culla. Ritornando alla domanda: il teatro è logos, tanto quanto la filosofia. D’altra parte, chi potrebbe negare quanto teatrali siano i dialoghi di Platone?
- Lo scorso 28 luglio ha aggiunto un nuovo personaggio al suo repertorio debuttando Sharpless nella nuova produzione della Madama Butterfly a Torre del Lago. Qual è il suo approccio ad un’opera così complessa, soprattutto alla luce del politicamente corretto e della culture cancel?
Sharpless è un personaggio stupendo e considero un gran privilegio aver avuto la possibilità di metterlo in repertorio! Ma nel rispondere a questa domanda, vi farò una confessione: sono partito dal non amare particolarmente questo titolo. Ora che l’ho studiato, posso dire che sono stato completamente cieco e sordo, perché è veramente un capolavoro per cui uscire fuori di “cocuzza”. E mi vergogno molto di non aver riconosciuto per tempo la sua infinita grandezza! Nel mio immaginario ha scalato velocemente la vetta delle mie opere preferite. Per quanto riguarda il personaggio che ho dovuto interpretare, ci si sofferma spesso sul carattere positivo del personaggio. E il Maestro Pizzi ha insistito molto sul suo carattere affettuosamente paterno. La suggestione, straordinariamente corretta, è esplicitamente indicata nel libretto. Nella scena in cui, dopo aver interrotto la lettura della lettera, si rivolge a Ciò Ciò San, suggerendo di prendere in considerazione la proposta di Yamadori, la didascalia recita “…le prende le mani con paterna tenerezza”. In questa indicazione abbiamo una esplicita unione tra l’idea di padre e la sua caratteristica più calorosa. Ma “padre” è un simbolo che va declinato. Appena conosciamo la nostra protagonista veniamo a sapere che la famiglia ha uno “scheletro” nell’armadio, ovvero la sorte del papà di Ciò Ciò San e che la famiglia, un tempo di gran prosapia, è stata colpita dai turbini della sventura. Non sappiamo molto, se non che il Mikado ha mandato un invito, prontamente eseguito. Seguendo Alexandre Kojeve vorrei ricordare che “Padre” è quella istituzione che genera l’autorità di cui essa stessa gode. E nel nostro immaginario rappresenta la legge. Il padre di Ciò Ciò San ha dovuto sottostare alla legge, da lui stesso dichiarata in quella “cosa sacra e mia” che la figlia nasconde a Pinkerton. Unico oggetto nascosto al suo sposo, figura maschile, futuro padre di suo figlio. Ma non possiamo non notare che la nostra sventurata protagonista infrange quella legge, di tradizione e consuetudini, per sposare interamente la cultura, altra, del marito. E una figura “normante” come lo zio Bonzo (zio perché? Fratello di chi? Del padre?) non manca di sottolinearlo in maniera roboante. In un magnifico saggio, Michele Girardi, grande studioso di Puccini, ha suggerito un bellissimo parallelo, ovvero quello tra Madama Butterfly e la tragedia greca, dimostrando, con molteplici rimandi, quanto l’opera pucciniana sia pervasa da “topoi” riconoscibili del genere tragico e incastonati nel nostro dna di spettatori. Molto acutamente lo studioso nota come l’abbracciare la fede americana sia, per Ciò Ciò San, una sorta di “hybris” che turba l’ordine sociale e che il sistema necessita di ristabilire con un equilibrio da lei stessa sconvolto. Qui, allora, sbalza tutta l’ambiguità della figura di Sharpless, paterna, sì, piena di “pietas” con lei, dolce nel comprenderla e “trattenere” il suo dramma nel secondo atto. Teneramente redarguisce nel primo atto anche Pinkerton. Ma nel terzo atto esplode la sua funzione di console e diplomatico, ovvero di legge, essendo colui che si incarica di ristabilirla. Ecco perché diventa “procedurale” nell’intento di dare al bambino un padre e, seguendo la legge salica, un padre americano. Facendo precipitare gli eventi e favorendo l’esito catastrofico della vicenda, necessario a riportare in equilibrio il sistema. Seguendo la strada che Girardi ha suggerito al mio immaginario, ecco che si stabilisce il conflitto tra la legge di Creonte e la giustizia di Antigone. Perché è ingiusto togliere a una madre il proprio bambino, ma la legge, dei padri verrebbe da dire, lo impone. Tutti i padri coinvolti: Il padre della protagonista, lo zio Bonzo per la parte giapponese e Pinkerton, Sharpless per la parte americana. E come ristabilire la prisca armonia? Tramite la legge del padre di Ciò Ciò San, che non a caso ricompare nella scena finale. Ella, che ha fatto saltare gli schemi di senso e le leggi degli avi, deve riallinearsi alla sua cultura. Lei lo dice “A lui devo obbedire”! In questo “lui” vi è marito e padre. Dunque lo fa, mentre il padre di suo figlio, sale la collina, nuovo Calvario, luogo di espiazione e redenzione, per prendere suo figlio e chiudere la contraddizione tragica. In questo senso l’opera è profondamente maschile, laddove, tradizionalmente la si pensa al femminile! Lascio, pertanto, ai lettori di riflettere su quanto questo testo sia politicamente corretto o meno e a proposito del Cancel Culture mi limito a dire che il primo che edulcorò il testo, fra prima e seconda versione, fu Puccini stesso. Mi fermo qui perché ci sarebbe da scrivere un trattato su quest’opera. Mi limito ad aggiungere che tutto quello che ho descritto (ed altro, non citato), naturalmente, è trattato musicalmente! E vi sono perle da far perder la testa, al di là dei consueti sublimi e famosi luoghi dell’opera come “Un bel dì vedremo…” o il coro a bocca chiusa. Magari ne parleremo un’altra volta, altrimenti rischio di farti perdere troppo tempo e non vorrei annoiare!
- A proposito di cultura e di politica, il teatro – e qui in specifico l’opera – si deve occupare di politica?
Negli anni ’70 la risposta a questa domanda sarebbe stata ovvia e il fatto che oggi non lo sia più, è di per sé stesso un fatto politico. Dobbiamo ritornare alle radici anche qui e ricordare che il teatro nasce nella città per la città. In essa tutto è politica. E nel momento in cui esiste “decisione”, vi è politica. Si tratta di comprendere come mai siamo arrivati a porci la tua domanda.
Oggi i teatri sono declinati rispetto al fondamentale tema della produttività (le famose “alzate di sipario”) e pertanto anche il cantante deve essere funzionale e produttivo. Nessuno proverebbe a mettere in dubbio la necessità calcolante di questi criteri diretti ad una buona economia. In questo senso il mondo musicale non si distacca dallo scenario pervasivo in cui siamo immersi, poiché tutte le nostre istituzioni sono ormai gestite su criteri manageriali tesi al raggiungimento di necessari obiettivi economici. Ma qui sta, forse, il granello di sabbia. L’economia è stata una delle più straordinarie invenzioni dell’uomo per l’uomo. Una grandiosa “diavoleria” per fare delle cose: nella polìs greca, per esempio, per far andare la gente a teatro. Ma nella Storia è servita anche per costruire ponti, strade, scuole, ospedali. Purtroppo, anche per fare orrendi conflitti e costruire bombe atomiche, e per noi, ogni estate, per comprare il Cucciolone, nella vana ricerca di una vignetta realmente umoristica. Il tema è che abbiamo talmente usato l’economia da farla diventare fine del suo stesso mezzo, facendo scomparire l’oggetto della sua necessità. Il discorso si fa ampio (non mi addentrerò più di tanto ora) e non è teso ad iniziare uno sciocco predicozzo pauperistico bensì per limitarmi a far notare che le prerogative del mercato, calcolanti e funzionali, divergono da quelle dell’arte, profondamente anti-economiche. Qui c’è un atto politico. Ma questo atto, e il conseguente distacco dalle “cose”, è un percorso che ha radici lontane.
Recentemente, mi è capitato di leggere un breve scritto di Giancarlo Gaeta, su suggerimento del mio amato professore di filosofia, Guido Panseri, veramente illuminante perché segnala quanto l’aspirazione al bene e al bello, racchiuso nella figura e nell’opera di Leonardo da Vinci, sia sempre stato legato anche ad un desiderio scientifico.
Con lui chi potrebbe dire che l’arte sia disgiunta dalla conoscenza! Possiamo quindi vedere Leonardo come icona di un umanesimo che rappresenta, per così dire, l’ultimo momento in cui si è tentato di superare quella spaccatura tra arte e scienza, elemento ormai dato per pacifico nella nostra epoca. Questa è una scissione che per certi aspetti ha avuto esiti gloriosi, non lo nego, ma che in questa separatezza ha favorito gli explicit alienanti e disumanizzanti della tecnica. Sì, perché successivamente, col pensiero cartesiano, si è sopraggiunti ad una astrazione radicale del pensiero e della conoscenza, fenomeno che ha fatto scivolare le prerogative dell’estetica nell’ornamentale e nel superfluo. Determinando, perciò, una concezione leggera di ciò che veniva dall’arte. Questo abbraccio mortale ci è rimasto addosso! Tant’è vero che nessuno metterebbe in discussione la necessità del mercato e della tecnica, mentre siamo a ogni piè sospinto impegnati a dimostrare che con la cultura si mangia, che l’arte è importante, bla, bla, bla. Un dibattito del genere nel ‘500 sarebbe stato lunare! L’astrazione del pensiero scientifico oggi, tuttavia, se ormai pervasivo, per certi aspetti, inizia a mostrarsi esausto, soprattutto nella sua forma tecnico-mercantilistica. Faccio riferimento ad un fatto di cronaca che mi ha colpito e che nel nostro ambiente non è stato affatto oggetto di dibattito: lo sciopero degli sceneggiatori e degli attori di Hollywood. Una cosa assolutamente inconsueta per l’ambiente cinematografico. In termini giornalistici: una notizia… il luogo per eccellenza del mercato cinematografico, che sciopera contro il mercato! Cose mai viste! Quale erano i termini della questione? Uno dei punti era la sostituzione delle competenze degli sceneggiatori con l’Intelligenza Artificiale la quale non minaccia solo di sostituire il lavoro di chi scrive, ma anche di chi recita. Sì perché l’IA potrebbe usare le interpretazioni degli attori reali, già registrati in database, per interpretazioni digitali vincenti rispetto alle esigenze di mercato, aumentando la produttività e togliendo i costi degli interpreti in carne de ossa. Ecco il conflitto tra pensiero tecnico-scientifico e pensiero artistico, sul “palcoscenico” del mercato! Noi tutti dobbiamo essere grati a questa protesta che ci fa comprendere come la loro (la nostra? Chissà…) professionalità venga distrutta dalle capacità tecniche di ripetizione, con sviluppo da video-gioco, di prodotti sempre più uguali in virtù delle necessità della richiesta di mercato. Ma mentre quest’ultimo richiede cose uguali, l’arte ama l’originalità. Vi è quindi la nullificazione dell’interprete e della stessa funzione dell’attore, che si sta diffondendo un po’ in diversi settori performativi, in varie forme. Dobbiamo essere grati a Hollywood di aver messo il dito nella piaga: loro se ne sono accorti. Questo fa capire come il cinema sia davvero profondamente interprete del nostro tempo, perché in questa protesta non vedo solo lavoratori contro le majors, ma intellettuali che si ribellano ad una dialettica storica! Ed è il segno che qualcosa non si può più trattenere e che è ingiusto far finta di nulla! Ragioniamoci! In questo senso siamo chiamati tutti a ricercare luoghi in cui tentare, anche nel nostro microcosmo, di invertire la rotta. Il Maestro Lanzillotta ed io, per esempio, abbiamo “inventato” un piccolo corso, “Operando”, in cui tentiamo di ricreare una bottega artistica in cui cantanti e direttori lavorano insieme sull’analisi dei testi antichi e ragionano sul tema dell’interpretazione. Ma anche, nel macrocosmo, mi piace citare una mia recente esperienza teatrale. il progetto “Bastarda” al Theatre de la Monnaie di Bruxelles. Un grande progetto, incubato in tre anni, nel quale si è ragionato su una grande storia, quella di Elisabetta I, con determinati schemi produttivi di gruppo, in cui si è creata una “compagnia” e costruita una dialettica anche con il pubblico. Insomma, si è fatta cultura. Possiamo quindi, ripeto, invertire la rotta, vi sono luoghi di speranza e non tutto è perduto.
Immagino pertanto che la scelta politica sia dialogare su ciò che diamo per scontato e ragionare su quel “There is no alternative”, diventato nostro inconscio collettivo in tutti i campi del nostro agire.
In questo senso forse abbiamo la necessità di ripensare Adorno, anzitempo messo frettolosamente in soffitta nell’ambiente musicale (vedo già i compositori con la pelle d’oca!), il quale vedeva nel rivolgimento dell’arte e della sua grammatica, se da un lato distruzione, dall’altro una promessa rivoluzionaria e utopica. In questo momento di passioni tristi abbiamo bisogno di utopie! E l’atto, politico certamente, più rivoluzionario è recuperare scenari di senso. Ovvero, nell’epoca dei “like”, far riemergere il criterio di competenza, nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale, ritrovare l’incanto dell’Umano. In questo senso vorrei richiamare un grande film, che mi mosse alle lagrime, “L’uomo che uccise Don Quichotte” di Terry Gilliam. Nella morte di Don Quichotte, ovvero dell’arte visionaria, il creatore (interpretato da Adam Driver), cinico, disilluso e legato al mercato, dopo un calvario dello spirito, ritrova la sua prisca verginità perduta e la necessità di lanciarsi verso l’orizzonte utopico della fantasia, che è là che lo aspetta. Ecco, come Adam Driver in quel film, dobbiamo compiere la scelta politica più radicale: riprendere quel cammino, ormai da troppo tempo interrotto.
- Un’ultima domanda, perché mi ha incuriosito: non le piace il Cucciolone?
No! Io adoro il Cucciolone. È una straordinaria costruzione: prepari l’esperienza di gusto con la parte di gelato alla panna. Poi affronti le asprezze del cioccolato per arrivare all’estasi dello zabaione! Una vera ascesi…
Alessandro Cammarano
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