Piacenza: la staticità non dona al Don Carlo

Fra i titoli del catalogo verdiano Don Carlo è certamente quello più complesso sia per la sua lunga e articolata gestazione sia per la densità di contenuti che animano le umane vicende che affondano le radici nella tragedia di Friedrich Schiller.

Tralasciando la genesi delle diverse edizioni, se ci si addentra nell’indagare i legami che intercorrono fra i personaggi, ci si trova di fronte a un capolavoro della letteratura operistica: in Don Carlo, infatti, ogni carattere è ben definito da una scrittura musicale che va oltre il testo del libretto.

La trama dei temi ordita da Verdi è sottilissima, molti di essi nella loro costante mutevolezza sono ravvisabili solo da un orecchio esperto, tuttavia il motivo malinconico, nonché riconoscibilissimo, dell’incontro fatidico nella foresta di Fontainebleau – che affiora facendoci vivere un atto che è stato completamente tagliato nella versione in quattro atti – ricompare ogni volta con toni e tinte diverse.

Al contempo l’apparente imponenza del contesto storico non è altro che una cornice in cui sono i sentimenti ad essere protagonisti in un claustrofobico clima di lugubre oppressione.

Amore oppresso, libertà oppressa, un sovrano oppresso dall’Inquisizione e una religione opprimente sono alla base di questo dramma che Verdi rielabora filtrandolo con una sensibilità e un senso drammaturgico prettamente shakespeariani.

Da qualche anno Don Carlo è un’opera molto rappresentata ma ancora troppo poco conosciuta. Forse per la lunghezza e complessità della vicenda? Tuttavia il pubblico accorre sempre numeroso come in questa recita al Teatro Municipale di Piacenza.

La produzione proviene da Modena ed è la ripresa di uno spettacolo della stagione 2012/2013, allora nella versione modenese del 1886, oggi in quella più breve di Milano del 1884.

La bellezza di questa edizione risiede nelle scene e costumi firmati da Alessandro Ciammarughi che restituisce con dovizia di dettagli una serie di suggestivi quadri rinascimentali che rievocano l’ambientazione spagnola in cui è ambientata la vicenda.

Il fascino delle scene dipinte ci riporta alla gloriosa tradizione degli scenografi italiani che in piccoli palcoscenici sapevano ricreare con giochi prospettici magnifici spazi architettonici, qui astutamente ricreati con un sapiente uso delle luci a cura di Claudio Schmid.

Tuttavia una fastosa cornice non basta a far rivivere il capolavoro verdiano.

Se la regia di Joseph Franconi-Lee può risultare aderente alle intenzioni dell’autore, la mancanza di uno scavo interpretativo e caratterizzazione dei personaggi ha reso statica l’azione e statuari i personaggi.

Prima fra tutte l’Elisabetta di Valois di Anna Pirozzi la cui vocalità imponente, sfoderata soprattutto nella grande scena dell’ultimo atto, ha completamente celato i soffocati tormenti della giovane regina e i malinconici pensieri che sovente la riportano a quella giovinezza trasognata della natia Fontainebleau.

Complice la direzione di Jordi Bernàcer, talvolta sopra le righe nei volumi, preferisce tirar dritto anziché abbandonarsi a un fraseggio che possa rendere giustizia a una partitura di abissale spessore. Inspiegabile la totale assenza di pathos nella dolente introduzione al grande monologo di Filippo II, qui interpretato magistralmente da Michele Pertusi il quale, ha riportato in vita con nobile vocalità uno dei personaggi più straordinari della storia del melodramma. Pertusi non solo fraseggia con drammatici accenti ma manifesta con un canto frastagliato i molteplici rovelli  interiori del sovrano spagnolo. Di notevole impatto il duetto col Marchese di Posa dove il baritono Ernesto Petti cerca maggior espressività e incisività anche laddove la sua natura vocale leggera stenta a decollare e superare i volumi di un’orchestra non sempre calibrata con le voci a disposizione. Lo stesso si è avvertito nel titanico scontro fra Filippo II e il Grande Inquisitore dove il basso Ramaz Chikviladze, ottimo nella dizione, credibile scenicamente, corretto musicalmente, è tuttavia risultato troppo pallido per una parte che richiederebbe un timbro decisamente più scuro e presente.

Ciò vale anche per il basso Andrea Pellegrini nelle vesti del Frate il cui canto è rimasto spesso in secondo piano.

A indossare le vesti di Don Carlo è il tenore Piero Pretti il cui timbro troppo chiaro per questa scrittura non è stato sopperito da quello scavo introspettivo necessario che rende questo personaggio visionario, romantico, poetico, idealista, contraddittorio e per certi aspetti mentalmente al limite della ragione. Tutto ciò mancava.

Meglio nelle intenzioni l’Eboli di Teresa Romano che risolve con astuzia l’impervia parte della crudele principessa.

Ben si inseriscono Andrea Galli nel duplice ruolo del Conte di Lerma/Un araldo reale e Michela Antenucci nei panni di Tebaldo e Una voce dal cielo.

Debole il Coro Lirico di Modena ben istruito dal maestro Giovanni Farina ma troppo esile per un’opera che richiederebbe maggior massa sonora.

Ovazioni per Michele Pertusi al termine del monologo di Filippo II e a conclusione della recita, in generale applausi per tutti.

Don Carlo, un’opera la cui complessità va oltre ciò che è scritto.

 

Gian Francesco Amoroso
(10 novembre 2023)

La locandina

Direttore Jordi Bernàcer
Regia Joseph Franconi-Lee
Scene e costumi Alessandro Ciammarughi
Luci Claudio Schmid
Movimenti scenici Daniela Zedda
   Personaggi e interpreti:
Filippo II di Spagna Michele Pertusi
Don Carlo Piero Pretti
Rodrigo Ernesto Petti
Il Grande Inquisitore Ramaz Chikviladze
Elisabetta di Valois Anna Pirozzi
Un frate Andrea Pellegrini
La Principessa d’Eboli Teresa Romano
Tebaldo Michela Antenucci
Il conte di Lerma Andrea Galli
Un araldo reale Andrea Galli
Una voce dal cielo Michela Antenucci
Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini
Coro Lirico di Modena
Maestro del coro Giovanni Farina

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