Ciammarughi & Nacoski: in due per Winterreise
A margine della Winterreise che hanno eseguito per la quinta volta a Rovereto lo scorso 27 febbraio – qui la recensione – abbiamo fatto qualche domanda a Luca Ciammarughi e Blagoj Nacoski, che si pongono di fatto come coppia artistica tra le più consolidate nel panorama della liederistica e più in generale per la musica vocale da camera.
- Com’è iniziata la vostra collaborazione?
Ciammarughi
Conoscevo e stimavo già Blagoj per averlo sentito cantare nei Teatri, per esempio alla Scala e al Massimo di Palermo. Nel 2020, durante la pandemia, un amico comune, il melomane siciliano Guido Schillaci, ci ha suggerito di fare un duo liederistico. Da anni desideravo interpretare i grandi cicli liederistici, che richiedono però molto tempo, spazio mentale e meditazione. Quel periodo così drammatico per noi tutti ci ha paradossalmente dato almeno questa possibilità: dedicarci anima e corpo a un repertorio che non si può “mettere in piedi” nei ritagli di tempo.
Abbiamo fatto il primo concerto a Viterbo, grazie all’invito di Sandro De Palma, la cui stagione era nel 2020 dedicata a Schubert: si trattava di concerti in streaming, ed è stato strano ma anche molto emozionante eseguire Die schöne Müllerin dal vivo ma a distanza rispetto al pubblico. In quei giorni fra noi si è creata una forte comunanza artistica e di idee, forse anche sull’onda di quell’esperienza così strana ma così importante per ricominciare a far musica e a vincere le paure
Nacoski
Fino al suggerimento dell’amico Guido Schillaci di fare Schubert con Luca, ammetto che non avevo mai assistito ad un concerto dal vivo in cui suonasse e lo conoscevo di più come musicologo, scrittore e conduttore radio. Al contrario Luca aveva assistito a opere in teatro dove cantavo e mi aveva pure recensito diverse volte. Il nostro primo concerto in streaming rappresenta la mia prima esibizione in streaming in assoluto.
Dalla prima prova de “La bella mugnaia”, nell’agosto del 2020, ci fu una grande intesa di sensibilità musicale, artistica ed interpretativa.
Alla mia attività principalmente operistica, anche se la Winterreise e Die schöne Müllerin li avevo già eseguiti con, ho sempre voluto affiancare la liederistica e direi che il momento in cui è iniziata la nostra collaborazione sia stato quello giusto, sia per l’età anagrafica sia per l’esperienza musicale, artistica e vocale.”
- Come si è evoluto il vostro percorso?
Nacoski
L’intesa di cui parlavo poco fa ci ha portati a 15 recital liederistici insieme negli ultimi 3 anni in cui abbiamo eseguite molte volte i cicli schubertiani Winterreise e Die schöne Müllerin, ma anche Schumann, Mahler, Beethoven, Hahn e musica vocale da camera macedone in molti festival italiani ma anche fuori dall’Italia. Sicuramente a breve incideremo la Winterreise e successivamente magari anche altro. È il ciclo che abbiamo eseguito di più ovvero sei volte compreso il recente concerto di Rovereto e ogni volta si scopre qualcosa di nuovo: è un continuo scavare da parte di entrambi nella partitura schubertiana e quindi ogni nostra esecuzione è un po’ diversa dalla precedente.
Ciammarughi
Die schöne Müllerin e Winterreise sono rimasti i capisaldi della nostra collaborazione. Abbiamo fatto Winterreise già cinque volte, la Müllerin quattro. Sono cicli che, come le grandi Sonate per pianoforte, possono essere lavorati per una vita intera senza che ci si stanchi mai. La musica di Schubert è altamente simbolica e quindi stimola di continuo l’immaginazione. Non si tratta solo di risolvere questioni tecniche o di sonorità: credo che in Schubert il lavoro su sé stessi per far nascere una “visione” sia particolarmente determinante.
Abbiamo poi ampliato il repertorio schubertiano ai Gesänge des Harfners, abbinandoli ad altri due brevi cicli (An die ferne Geliebte di Beethoven e Der arme Peter di Schumann) nel nostro debutto al Festival “Trame sonore” di Mantova, dove dal 2021 torniamo ogni anno. Lì abbiamo esplorato anche le mélodies di Reynaldo Hahn, i primordi del Lied tedesco (Zelter, Reichardt) e la musica vocale da camera di compositori macedoni del Novecento.
- Perché Schubert nel 2024 e perché “Winterreise”?
Nacoski
Io rimasi sedotto da questo ciclo sin dalla prima volta che lo ascoltai. L’amico Alessandro d’Agostini mi regalò il CD della Winterreise eseguito da Peter Schreier e Svyatoslav Richter circa 25 anni fa e fu amore a prima visto subito.
Credo che oggi la Winterreise abbia perso un po’ il primato di un tempo nelle sale da concerto ed è considerata un prodotto di nicchia, anche all’interno di quella nicchia che è la musica classica. Invece a mio avviso rappresenta a tutti gli effetti una vera opera d’arte non meno dei dipinti di Caravaggio, Monet, Van Gogh, delle poesie di Dante, Petrarca, Shakespeare, i romanzi di Marcel Proust ecc. Quindi dovrebbe diventare indispensabile che faccia parte dell’esperienza comune di ogni amante dell’arte e non solo. Secondo me, le 24 canzoni sono i precursori, in un certo senso, di tutte quelle canzoni d’amore ascoltate (e cantate) dalle generazioni di giovani fino ad oggi.
Il mio sogno sarebbe di farne una rappresentazione scenica o semi-scenica del ciclo, magari con dei ballerini, proiezioni ecc. Anche perché per me c’è del teatro in questo ciclo: amore, perdita, dolore, solitudine, disperazione, anche ironia a volte, ovvero emozioni continue ingigantite dal paesaggio notturno e invernale di questo viaggio del viandante.
Ciammarughi
Su questa domanda si potrebbe scrivere un intero volume. La storia della ricezione di Schubert ci dice molto non solo sulla sua musica, ma anche sulla società in cui essa si riflette. A inizio Novecento, Schubert era visto perlopiù come un “Beethoven minore” o come una figura quasi leziosa: una sorta di “divin fanciullo” dalla cui penna sgorgavano Lieder miracolosi, ma che nella grande forma perdeva il controllo. Prolisso, troppo femminile, illogico. Solo dal dopoguerra in poi è avvenuta la piena comprensione della genialità visionaria di Schubert, della sua abissale tragicità, ma anche delle sue intuizioni formali, diverse ma non inferiori rispetto a quelle di Beethoven. Oggi Schubert non ha più bisogno di essere difeso: è divenuto quasi “di moda” (anche se a livello accademico e nei programmi dei concorsi ancora è troppo assente). Ma una ragione c’è: Schubert visse i suoi anni cruciali in uno spazio e in un luogo, l’Austria di Metternich post-Congresso di Vienna, in cui gli ideali rivoluzionari e i grandi impulsi di fine Settecento avevano lasciato spazio a una sorta di disillusione cinica e a forme di edonismo come reazione alla censura, allo stato di polizia, alla privazione delle libertà. Godere per non pensare. Una società che tutto sommato ha molti aspetti in comune con il tardo-capitalismo in cui viviamo. In Schubert, e in Winterreise in particolare, c’è una sorta di fatalismo, di rassegnazione sconsolata al destino (“una strada devo prendere, dalla quale nessuno è mai tornato”), ma allo stesso tempo c’è una forma di resistenza, che è tutta nel messaggio titanico della verità artistica, chiarissima per chi la sa cogliere.
- Winterreise è stata interpretata in mille modi: in particolare il Lied finale, “Der Leiermann”, ci pone di fronte all’incontro con un vecchio misterioso, il suonatore di organetto, il cui significato è ancora oggi sfuggente.
Ciammarughi
E per fortuna che è sfuggente! Schubert è immenso proprio perché non univoco. A me sembra che il Leiermann sia una figura per certi versi vicina a quella dell’arpista del Wilhelm Meister, un artista ispirato e folle che porta su di sé sofferenze indicibili ed è destinato a una fine tragica. Come del resto la figlia Mignon, sorta di “androgino” che morirà adolescente. Sono i reietti, i paria, i diversi, gli ultimi che Schubert tanto ama. Del resto, egli stesso fece parte di questa schiera. Povero, senza madre, con un padre autoritario, impacciato nei rapporti economici con gli editori, senza una vera carriera, probabilmente omosessuale, giudicato persino dagli amici come “troppo vorace” negli appetiti erotici nonostante la sua natura fortemente spirituale (in realtà due lati della stessa medaglia), sifilitico e quindi condannato a una fine infausta. Ma era Schubert e, come egli stesso scrisse a un amico: “Lo Stato dovrebbe mantenermi: sono venuto al mondo per comporre”. Gli avvenimenti esteriori ci dicono poco della sua ricchezza interiore e della magnificenza assoluta che portava dentro di sé: ci dice tutto la sua musica. Il Leiermann, l’uomo con l’organetto con cui il viandante ripeterà forse i 24 Lieder di Winterreise, potrebbe essere la Morte, ma più probabilmente è l’incarnazione estrema di questo status di “diverso” che non può e non vuole conformarsi alla banale felicità degli integrati.
Nacoski
A quello che ha detto Luca voglio aggiungere che probabilmente è il Lied più difficile da interpretare, non per il fatto che sia l’ultimo, ma dal punto di vista emotivo e interpretativo. Con Luca abbiamo sempre ritenuto che non andrebbe cantato con la voce impostata tipicamente da Belcanto (o lirica), ma ovviamente nemmeno con un’impostazione Pop, quindi bisognerebbe cercare una via di mezzo. D’altronde non credo che questi Lieder si eseguissero con l’impostazione lirica nell ‘800, peccato non averne testimonianze dirette riguardo ciò. È molto interessante il fatto che dopo ogni esecuzione di Winterreise segue uno schema simile se non identico: prima dell’applauso del pubblico spesso vi è un silenzio prolungato che fa parte dell’esperienza condivisa del pezzo, un silenzio interpretato sia da parte del pubblico e che da noi esecutori.
Alessandro Cammarano
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