Parma: Pletnëv o l’elogio della quiete
Un Mikhail Pletnëv a tratti inaspettato, quello che si è potuto ascoltare lunedì scorso, 18 Febbraio, al Teatro Regio di Parma. In programma, i 24 Preludi Op.11 di Scriabin e i 24 Preludi Op.28 di Chopin. La scelta di anteporre il compositore russo, successivo al maestro polacco in termini cronologici, mostra una evoluzione “al contrario”, che presenta prima il risultato e poi il punto di partenza – o quanto meno di ispirazione.
Il pianista si presenta sul palco con la sua consueta calma, quasi sacerdotale, ma attacca alla tastiera senza quasi sedersi. Il primo preludio di Scriabin si apre quieto, non certo Vivace come da spartito, ma ampio, che respira. Pletnëv si prende il tempo si lasciar viaggiare il suono – un suo tratto distintivo, si potrebbe dire – e che esso si esprima tanto quanto i temi o gli intrecci polifonici della scrittura. Ecco che i segni del tenuto, sparsi qui e là sulla parte, divengono canto immaginario, tema nascosto – proprio come in Chopin (si pensi ad esempio allo studio in Sol bemolle dell’Op.25). Anche il fortissimo finale non è un vero e proprio fortissimo; è piuttosto una generosità di risonanza, col pedale sempre dosato con attenzione, di quell’ottava di do bassa, che si sparge nel teatro come un’onda senza spigoli.
Questa è l’impronta che non solo i Preludi di Scriabin avranno durante la serata, ma anche quelli di Chopin. Pletnëv sembra riscoprire qualcosa di valore che risiede nella calma. Ma non tanto quella dei tempi seduti o dei caratteri esangui, quanto nelle grandi tensioni ma sorde, sommerse; nell’ascolto profondo e nella meditazione lucida sugli struggimenti, sui dolori e le agitazioni che animano e generano alcune di queste pagine.
Da questo punto di vista, la prima parte del concerto è stata resa con una chiarezza e una permanenza di grande rilievo. Quasi ogni preludio era connesso al precedente grazie al sapiente uso dei pedali, o di alcune risonanze. La visione è nitida, giunge senza interferenze. Eppure sembra ci sia una sorta di abbandono, dietro. L’abbandono di un punto di vista, ora inattuale, che attribuiva a queste brevi pagine qualità esibizionistiche aldilà delle quali Scriabin sembrerebbe adombrare l’anima, in favore di un altro che ne raccoglie l’intimo animo di confessioni, a tratti quasi di estatiche improvvisazioni, che mettono a nudo il compositore, dando maggiore dignità alla sua essenza di essere umano oltre che di musicista.
Pensiamo a preludi come il n.4, in Mi minore, dove alla linea cromatica narrante della sinistra si alterna un controcanto della destra, resi da un Pletnëv che scava nella sua esperienza di direttore d’orchestra, attribuendo timbri diversi, riconoscibili e distinguibili. Oppure ad altri come il n.6, il n.8 o il n.11, dove l’agitato diviene qualità interiore invece che di metronomo – il n.8 in particolare, in cui l’agitazione si trasforma in esitazione, dubbio. Questa rinnovata visione trasforma anche il celebre n.14, che rinuncia indubbiamente un vero e proprio Presto per esaltare il “canto” della sinistra, i piano, i mezzoforte, o gli sforzati della destra; abbandonando la violenza di altre interpretazioni, specie nella chiusura. Il n.16 stupisce per la delicatezza delle parti non tematiche – essenzialmente sussurrate – e il tema che richiama immediatamente la celebre Marcia Funebre chopiniana. Il n.18 si allontana dalle esecuzioni degli anni ’90, alleggerendo moltissimo le ottave della sinistra e dando alla destra maggiore rilievo. Si arriva, così, senza quasi rendersi conto, al n.24, che chiude il ciclo con un Presto molto elastico, scorrevole senza rompere le legature, e con degli accenti che, ancora una volta, trattengono e fanno risaltare chiusure di frammenti, cambi di armonia. Solo in coda il tempo si dilata, e torna a un’immagine sonora vicina a quella del n.1, dove i cicli del suono hanno valore primario e le risonanze viaggiano rotonde.
Dopo una breve pausa il pianista russo torna sul palco, e con la stessa subitaneità attacca il primo preludio di Chopin – questo è sì agitato, ma delicato, esaltando la linea “del pollice” della mano destra – ma è il secondo a stupire: l’andamento non è propriamente Lento, anzi è quasi agitato (forse il tempo tagliato ha dato adito ad una interpretazione meno seduta del brano); e il mormorio lamentoso della sinistra, dall’uniformità di tocco impressionante, è invadente, è elemento che sembra voler disturbare l’eloquenza del canto della destra. Il preludio n.3 è giustamente Vivace (ma non velocissimo come in certe esecuzioni), e il moto perpetuo della sinistra ha quasi il timbro “sillabato” di un clarinetto che quello di un violoncello.
Un elemento curioso di questa esecuzione chopiniana di Pletnëv, mantenendo l’approccio “umanizzante” e introspettivo già citato per Scriabin, è stato quello di moderare le velocità rapide e di sostenere i Largo o i Lento assai, facendo in modo che il suono dei cantabili rimanesse percepibile. Questo è accaduto, ad esempio, nei preludi dal n.4 al n.7 (ma anche per il n.9). Con il n.8 Pletnëv si riavvicina al n.1 per certi versi, esaltando quasi solo “i pollici” e sussurrando tutte le altre note della destra.
Passando per il n.12 in Sol diesis minore, caratterizzato da una gamma di varianti del forte molto elastica e mai violenta, e il n.13 di cui è doveroso citare la sezione centrale, Più lento, per l’incredibile maestria orchestrale – in particolare negli accompagnamenti della mano sinistra – si arriva a preludi come il n.14 o il 16. Pletnëv qui è sembrato avere una sorta di momento di disconnessione, di separazione dallo stato estatico in cui si trovava immerso, e avere qualche cedimento, qualche smarrimento, e così è stato, bene o male, fino alla conclusione del ciclo. Il n.14 è molto più lento che in passato, e non sembra veramente a fuoco; dopo il celebre preludio in Re bemolle, nel n.16 – da sempre eseguito ad una velocità più seduta della media, ma con una chiarezza e una asciuttezza davvero rare – torna quel senso di smarrimento, come se sfuggisse un po’ dalle dita, e la chiarezza di quel flusso ininterrotto di sedicesimi va un po’ perdendosi.
La stessa cosa si è avvertita, in parte, nel n.17, scisso tra momenti di meraviglia sonora e altri di dispersione. Il n.18 non era affatto Molto allegro, ma più un recitativo, preso con tutta calma e con una gamma di suono che arriva forse al forte, ma mai al fortissimo. Coi preludi nn.19, 20 e 21 Pletnëv sembra gradualmente riprendere confidenza con le intenzioni iniziali, ma sono il n.22 e il n.23 ad essere i più messi a fuoco – doveroso fare cenno alla chiarezza cristallina di quest’ultimo, che non poco lo avvicina a un preludio di Bach. Chiude il n.24, che risente nuovamente di quelle interferenze. La velocità più calma e l’ampiezza del canto non sono motivo di disturbo, quanto un poco senso di unità, e un senso di “stanchezza” nell’ultima pagina, tanto da giungere agli ultimi, perentori Re quasi accasciato sul pianoforte, dando le spalle al pubblico.
Se, in parte, ciò abbia forse costituito un calo di tensione e di coinvolgimento per chi ascolta, dall’altra parte ha restituito un enorme senso di umanità, anche di fragilità. Tante, troppe volte ascoltiamo questi meravigliosi cicli eseguiti con un fondo di dimostrazione. Come se l’interprete fosse chiamato a stupire, a spettacolarizzare una musica che, al contrario, è fatta di brevi momenti colmi di sincerità, di impeto ma anche di fragilità. Questo non vuole essere un’attenuante, perché in questo concerto alcuni cedimenti ci sono stati; piuttosto, semmai, vuole ricordare che anche chi si trova sui palchi più importanti del mondo resta sempre un essere umano. Un essere umano che, per quanto si possa proporre la quiete e la magia (e il più delle volte riuscirci dandoci un’impressione disarmante di semplicità), può avere squarci di fallibilità. Per qualcuno, anche ciò può essere materia per osservare, per ascoltare musica attraverso un essere umano.
Tali squarci, evidentemente, non hanno spento l’entusiasmo del pubblico, che ha richiamato Pletnëv per tre volte sul palco ad ognuna delle due parti del concerto con enormi applausi ed elogi. I bis sono stati due: Arabesque, di Schumann, e lo Studio Op.72 n.6 di Moszkowski, studio di cui tutti, credo, conosciamo il livello dell’esecuzione.
Andrea Rocchi
(18 marzo 2024)
La locandina
Pianoforte | Mikhail Pletnëv |
Programma: | |
Alexander Scriabin | |
Ventiquattro preludi, Op. 11 | |
Frédéric Chopin | |
Ventiquattro preludi per pianoforte, Op. 28 |
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