Milano: nel Tell scaligero vince la musica
Spesso ci si interroga su cosa avrebbe potuto scrivere un compositore se fosse vissuto più a lungo. Domanda che non ha risposta se non nel lascito di partiture che sono divenute pietre miliari della storia della musica occidentale.
Il caso di Gioachino Rossini, la cui dipartita è avvenuta ben trentanove anni dopo il suo ultimo capolavoro teatrale, è un’eccezione che ha acceso numerosi dibattiti già all’epoca del suo ritiro dalle scene.
Guillame Tell è un’opera simbolo di un cambiamento che ha lasciato un seguito nel passaggio di testimone ad altri autori e che Rossini stesso ha -volutamente o inconsciamente?- reso alla storia come unicum della sua vasta produzione anche se qualche anticipazione se l’è lasciata sfuggire con la Donna del lago e successivamente nelle pagine sperimentali dei Péchés de Vieillesse.
Con questo lavoro Rossini si discosta enormemente dalle consuetudini alle quali ci aveva abituato, spalancando gli orizzonti formali ed espressivi verso una nuova concezione del melodramma che in parte esula dall’apparente definizione di Grand-Opéra ma che va oltre i confini di un genere fin troppo codificato.
La vicenda è nota ed anche la sua cornice elvetica, che affiora prorompente dalla partitura nelle molteplici citazioni melodiche di agresti ranz de vaches, è una garanzia rassicurante di una dimensione idilliaca preesistente e necessaria per la risoluzione finale.
Un’umanità oppressa cerca di riappropriarsi della libertà e rifondersi nella natura cui appartiene.
Un tema eterno.
In questa nuova produzione scaligera, la cui ultima edizione risale al dicembre 1988 firmata da Riccardo Muti e Luca Ronconi, la regia è stata affidata a Chiara Muti, al suo debutto nel teatro meneghino.
La visione di Chiara Muti è angosciante, claustrofobica e dominata dalle tenebre che incombono su un’umanità oppressa e alienata da una tecnologia che l’ha privata dei suoi valori più alti. E così ritroviamo dei tablet e smartphone con luci fredde, sullo sfondo sinistri grattacieli rotanti avvolti nelle nebbie che richiamano le architetture del film Metropolis di Fritz Lang, una Babilonia che sparge caos, i sette peccati capitali, un albero privo di vita, le mele di biblica memoria e infine dalle tenebre sorge la natura che si erge dipinta nel teatro dell’umanità.
Tanti elementi, troppi, esposti in modo disordinato che a lungo andare fanno a pugni con una partitura la cui lunghezza non aggrava l’ascolto ma che meriterebbe un’apparato visivo maggiormente intelligibile per essere valorizzata e compresa appieno. In questo caso, invece, il tentativo di comprendere alcune trovate registiche distoglie l’attenzione dal discorso musicale provocando solo confusione e distrazione.
Al contrario la direzione di Michele Mariotti è volta verso una estrema cura del paesaggio sonoro già a partire dall’Ouverture principiata con dettagli espressivi che ritroveremo lungo tutto il corso dell’opera. Anche i passi più vigorosi, affrontati col giusto impeto giovanile, non sono mai eccessivi ma rispettano un equilibrio formale che ben si adatta anche alle qualità vocali dei protagonisti. Forse il finale, dove finalmente si esce dalle tenebre, poteva essere più vibrante e magniloquente ma probabilmente le troppe ore di oscurantismo scenico hanno creato un po’ di affaticamento.
Interessante la compagnia di canto dove spicca Michele Pertusi nel titre du role. Pertusi affronta la singolare scrittura rossiniana con l’eleganza che lo contraddistingue e una linea di canto ben amministrata anche nei passi che richiedono maggior incisività.
Al suo fianco il tenore Dmitry Korchak, nel ruolo di Arnold Melcthal, esaudisce con duttilità la non facile tessitura che si estende in acuti che richiedono un certo squillo e padronanza, senza mai perdere di vista l’elemento espressivo che rende particolarmente umano e romantico il personaggio.
A vestire i nobili panni di Mathilde è il soprano Salome Jicia, la cui vocalità, sfibrata e non sempre a fuoco, non conferisce quello smalto e quel legato incantevole necessario per rendere appieno il personaggio.
A completare il cast ben si inseriscono Catherine Trottmann, Géraldine Chauvet, Luca Tittoto, Dave Monaco, Evgeny Stavinky, Nahuel Di Pierro, Paul Grant, Huanhong Li.
Ottimi i numerosi interventi del Coro del Teatro alla Scala, istruito dal maestro Alberto Malazzi, coprotagonista di una trama musicale particolarmente complessa.
A completare il quadro di questa monumentale opera rossiniana gli Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia del Teatro alla Scala diretta da Frédéric Olivieri con le coreografie di Silvia Giordano.
Al termine ovazioni per Michele Mariotti, applausi fragorosi per la compagnia di canto, parecchie contestazioni per Chiara Muti.
Diamo spazio alla musica.
Gian Francesco Amoroso
(20 marzo 2024)
La locandina
Direttore | Michele Mariotti |
Regia | Chiara Muti |
Scene | Alessandro Camera |
Costumi | Ursula Patzak |
Luci | Vincent Longuemare |
Coreografia | SILVIA GIORDANO |
Personaggi e interpreti: | |
Arnold Melchtal | Dmitry Korchak |
Guillaume Tell | Michele Pertusi |
Walter Fürst | Nahuel Di Pierro |
Melchtal | Evgeny Stavinsky |
Gessler | Luca Tittoto |
Rodolphe | Brayan Ávila Martinez |
Leuthold | Paul Grant |
Ruodi | Dave Monaco |
Mathilde | Salome Jicia |
Jemmy | Catherine Trottmann |
Hedwige | Géraldine Chauvet |
Un chasseur | Huanhong Li |
Orchestra, coro e corpo di ballo del Teatro Alla Scala | |
Maestro del coro | Alberto Malazzi |
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