Vicenza: Taborn e la nuova sintassi del pianoforte
La ventottesima edizione di Vicenza Jazz si presenta sin dal titolo, discretamente esplicativo “Un sogno lungo 88 tasti” come un viaggio nel pianismo jazz fra tradizione e nuove tendenze, ove non di vera e propria sperimentazione di vie differenti, sia nella composizione che nell’approccio allo strumento.
Protagonista della serata inaugurale, in un Teatro Olimpico gremito, è stato Craig Taborn e la scelta non avrebbe potuto essere più felice.
Il pianista statunitense, classe 1970 si conferma tra i più significativi rappresentanti di una ricerca di nuove forme espressive capace di distaccarsi da una tradizione di stilemi cristallizzati e forse a tratti anche vagamente “museali” che hanno caratterizzato gli ultimi anni contrapponendosi allo sviluppo di percorsi alternativi.
Il concetto che sta alla base del lavoro di Taborn, soprattutto per quanto attiene l’improvvisazione al pianoforte solo è di fatto estremamente semplice, adottando di preferenza un approccio modulare, utilizzando piccole unità di melodia e ritmo per poi svilupparle. Questo può iniziare con un minimo di tre note, con la struttura costruita attorno al riferimento agli elementi delle unità. Inizia semplicemente, utilizzando elementi di base come le terze maggiori e minori, variandoli a turno e poi continua ad espandersi per creare strutture più grandi. Inoltre, adotta una combinazione dell’attacco e del pedale del forte del pianoforte per attirare l’attenzione sulle parziali superiori di una nota; ciò consente di percepire un contrasto accentuato tra le note.
Si aggiunga una tendenza al dissolvimento del ritmo all’interno degli ostinati che costituisce ulteriore motivo di ricerca di una nuova sintassi musicale pur rimanendo all’interno di un perimetro che richiama il contrappunto barocco rimandando al contempo a suggestioni raveliane.
A quanto descritto sopra Taborn unisce una tecnica sopraffina che gli permette di padroneggiare un fraseggio ricco di sfumature e di attingere ad una tavolozza espressiva capace di sprigionare una fantasmagoria di emozioni.
Tutto ciò è apparso plasticamente evidente nei pezzi che costituivano l’impaginato della serata a cominciare da “But not for me” di Gershwin che Taborn rilegge come un tema che dalle tre note iniziali si espande in articolazioni cromatiche sorrette da un contrappunto che, per analogia, si potrebbe definire bachiano.
Da qui prende il via un viaggio attraverso i pezzi dello stesso Taborn, tra improvvisazioni – che meraviglia “American landscape” – e versioni per piano solo di pezzi originariamente scritti per trio, come “Crocodile” e “Speak the name” cui si unisce la percussività intrigante di “Glossolalia”.
Folgorante nei suoi richiami etnici “When Kabuya dances”, scritta dalla pianista e compositrice Geri Allen scomparsa nel 2017 e offerta da Taborn come bis ad un pubblico concentrato e giustamente generoso negli applausi.
A completare la serata un Piano Summit affidato a quattro pianisti – Dado Moroni, Margherita Fava, Danny Grisset e Francesca Tandoi – di indubbio talento ma che al confronto di quanto si era ascoltato in precedenza sono apparsi come non più che corretti esecutori di un programma al profumo di brodino vegetale.
Alessandro Cammarano
(13 maggio 2024)
La locandina
Pianoforte | Craig Taborn |
Programma: | |
George Gershwin | |
But not for me | |
Craig Taborn | |
Shadow plays (Imp.) | |
American landscape (Imp.) | |
Glossolalia | |
Crocodile | |
Neither-Nor | |
But not for me (Verse) | |
Speak the name | |
Bis: | |
Geri Allen | |
When Kabuya dances |
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