Salisburgo: Tito soccombe al perdono

«Una porcata tedesca», cosí, all’indomani della première praghense, l’imperatrice d’Austria, fresca regina di Boemia, Maria Luisa, ebbe a definire ingiustamente e con troppa fretta La clemenza di Tito.

Certo, alla sovrana, attaccata alla tradizione ed ai rigidi canoni dell’opera seria italiana, le innovazioni nel genere dovettero risultare parecchio sgradite, visto che della “maniera” nel capolavoro che Mozart compose in diciotto giorni restano solo i recitativi secchi, rivisti comunque in maniera affatto nuova; tutto il resto è innovativo a partire dal trattamento dei personaggi che, liberi da schemi, danno sfogo a sentimenti veri, intensi, quasi preromantici. Se già in Idomeneo il nuovo era in incubazione, nella Clemenza l’ innovazione è evidente ed incredibilmente affascinante. Il parallelo, che spontaneo nasce col Lucio Silla, forse la più convenzionale tra le opere serie di Mozart, vede il lavoro giovanile, che pure tratta una tematica simile, ovvero un tentativo di regicidio che fallisce e viene perdonato, soccombere sotto la forza espressiva maturata attraverso lo studio dell’animo umano, esercitata ed estrinsecata nella trilogia Nozze di FigaroDon GiovanniCosì fan tutte.

Il successo inizialmente tiepido crebbe nel corso degli anni, finché la Clemenza divenne un modello per i compositori neoclassici, Spontini in primo luogo, e poi per Meyerbeer, che ne colsero il reale valore che oggi è riconosciuto a questo estremo capolavoro, cosí diverso, eppure tanto simile, alla Zauberflöte. composta nelle stesse settimane, doppio suggello ad un genio incomparabile.

Nell’allestimento che apre il Festival di Pentecoste, il cui titolo è quest’anno “Tutto Mozart”, Robert Carsen si conferma in tutta la sua genialità, assestando al pubblico un salutare cazzotto nello stomaco, svegliandolo e costringendolo a pensare.

L’azione si svolge, sempre in bilico tra utopia e distopia, interamente all’interno dei palazzi del potere, grigi ed asettici immaginati da Gideon Davey che firma anche i costumi, mentre i movimenti coreografici sono di Ramses Sigl: il regista canadese porta l’azione ai giorni nostri, segnati da violenza crescente e intolleranza dilagante, facendo politica – che per inciso è esattamente ciò che fa il teatro da Eschilo in avanti – e mettendo a nudo la crudeltà del potere che non può perdonare chi perdona.

Dunque Tito soccombe per mano degli assalitori del “Campidoglio Hill” – il riferimento ai fatti accaduti a Washington il 6 gennaio 2021 è richiamato anche nel video di Thomas Achitz – beneficiati poco prima dalla sua clemenza ma rapidamente riarmati con il pugnale che, come il testimone di una staffetta macabra, passa da Sesto a Vitellia subdola doppiogiochista che lo consegna a Publio, il cui “Tardi s’avvede d’un tradimento” suona come una gelida profezia.

Assai efficace dal punto di vista drammaturgico anche la scelta di Sesto e Annio donne, sia pure in tailleur pantaloni e non “en travesti”, a sottolineare la fluidità che, con buona pace dei codini e dei bigotti, è parte della nostra società.

Gianluca Capuano conduce i suoi Musiciens du Prince – Monaco – che meraviglia Francesco Spendolini al clarinetto e corno di bassetto solisti –in un racconto musicale incalzante, caratterizzato da screziature ritmiche capaci di rendere pienamente le atmosfere sospese che caratterizzano la partitura senza perdere mai di vista la melodia alla quale dedica abbandoni stranianti trovando nel contempo un colore ben evidenziato per ciascuno dei personaggi.

Sugli scudi i continuisti, ovvero Davide Pozzi al cembalo – anche nella parte concertante –, Andrea Del Bianco al fortepiano e Antonio Papetti al violoncello.

Convince pienamente la compagnia di canto, a principiare da Daniel Behle, capace di dar vita ad un Tito di solare nitore per quanto riguarda la voce oltre che attento a renderne i sentimenti contrastanti che lo caratterizzano attraverso un fraseggio calibrato al millimetro.

Alexandra Marcellier è Vitellia dagli accenti taglienti, forte di una vocalità poggiata su una linea di canto affilata, mentre Mélissa Petit dà voce e corpo ad una Servilia a sua volta volitiva rafforzando la sua interpretazione con un canto sinuoso e morbidissimo.

Anna Tetruashvili – per chi scrive vera scoperta della serata – è Annio pressoché perfetto per voce e recitazione mentre Ildebrando D’Arcangelo si conferma ancora una volta interprete d’alto lignaggio caratterizzando il suo Publio, qui lupo travestito da agnello, attraverso un fraseggiare autorevole e colori mutevoli.

Resta da dire del Sesto della padrona di casa, Cecilia Bartoli, che ancora una volta mette la sua arte sopraffina a totale servizio del personaggio; le agilità e gli abbellimenti non sono mai fini a loro stessi, il canto si espande in un caleidoscopio di emozioni in una totale immedesimazione da parte dell’interprete che la a sua volta la trasmette al pubblco al quale si offre totalmente.

Ottima la prova del coro Il Canto di Orfeo preparato da Jacopo Facchini.

Applausi a scena aperta al termine di quasi tutte le arie e successo al calor bianco per tutti gli interpreti, con qualche sparutissimo dissenso per Carsen e i suoi collaboratori.

Alessandro Cammarano
(17 maggio 2024)

La locandina

Direttore Gianluca Capuano
Regia e luci Robert Carsen
Scene e costumi Gideon Davey
Luci Peter Van Praet
Video Thomas Achitz
Coreografie Ramses Sigl
Personaggi e interpreti:
Tito Vespasiano Daniel Behle
Vitellia Alexandra Marcellier
Sesto Cecilia Bartoli
Servilia Mélissa Petit
Annio Anna Tetruashvili
Publio Ildebrando D’Arcangelo
Les Musiciens du Prince — Monaco
Il Canto di Orfeo
Maestro del coro Jacopo Facchini

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