Portoferraio: In una notte trasfigurata dallo stralunato amore di due amanti
Non sembri così banale sottolineare che quello dell’Elba, di fine estate, è un festival perché ha le caratteristiche di un festival: la durata non esagerata (due settimane e tre weekend), la continuità quotidiana dei concerti, la centralità di un luogo simbolo (il ritrovato Teatro dei Vigilanti) ma non di meno la diramazione in diversi luoghi altrettanti simbolici (in questo caso distribuiti all’interno dell’isola) e, quasi una conseguenza, il collegamento con gli stimoli turistici e culturali in senso lato; infine le motivazioni prettamente musicali: l’attenzione e la promozione dei giovani musicisti, un’orchestra in residence, un compositore residente, oltre ai riferimenti storici dovuti ad anniversari e centenari (quest’anno, su tutti Schönberg, Bruckner, Fauré, Puccini), per finire con un’idea, come si usa dire, interdisciplinare: le musiche eseguite dal vivo per il film muto “I Tre Moschettieri”, tratto naturalmente da Alessandro Dumas padre (ben noto ai toscani delle isole, quantunque non vi sia mai passato, e ben più noto del figlio omonimo, di cui, anche lui, ricorrerebbe quest’anno il bicentenario della nascita). La terza serata del festival elbano si concentrava su tre dei temi accennati: l’orchestra in loco, il compositore residente e i 150 anni dalla nascita di Arnold Schönberg.
Ma iniziamo dal Mozart ventenne, giovane irrequieto che comincia a esser stanco di stare a Salisburgo al soldo del vescovo Colloredo ed è più incline ai viaggi (torna dall’Italia ma da lì a poco pensa già di ripartire) e che a Portoferraio è il pass-partout a suo modo perfetto per aprire le serate in modo sereno, con la giusta mistura di semplicità di virtuosismo. Questo è anche il caso del primo dei due concerti per flauto, scritto nel 1778 a Mannheim, di ritorno da Parigi: nella città tedesca, oltre a ritrovare Aloysia Weber, meta inarrivabile dei suoi desideri, Mozart può giovarsi di un’orchestra di una certa notorietà, cui potrebbe ispirarsi l’orchestra elbana dei nostri giorni. Vi sono delle ottime prime parti che possono alzarsi da soliste, dei giovani più che promettenti e dei facoltosi musicisti amatoriali, come quell’ufficiale olandese, De Jean, per il quale Mozart, pur un po’ controvoglia, scrive il K. 313 e il 314. Ma non poteva essere un problema: anche l’Amadè in calo di zuccheri sforna quantomeno piccoli capolavori.
E il primo flauto dell’Elba, Adam Walker, già primo della London Symphony Orchestra ancora ventunenne, suona, senza alcunissimo dubbio, molto ma molto meglio del povero ufficiale di stanza a Mannheim. È così che affronta quel Mozart con la sicurezza di chi l’ha eseguito fin dalla gioventù e ora si può permettere di sporcare qualche suono, volutamente e con controllo, per tornare alla cantabilità galante dell’Adagio centrale e in chiusura alla spensieratezza tutt’altro che banale di quella specie di Rondò-sonata a tempo di valzer.
Encomiabili sia Walker che l’orchestra da camera (con archi a quattro primi).
La serata era tripartita e nella seconda parte l’orchestra si ingrossava per poter eseguire la Sinfonietta di Arturo Cuéllar, compositore residente che chiudeva quest’anno il suo incarico triennale.
Il suo linguaggio parte dal ripensamento degli ultimi esiti post-romantici, quelli che incontrano sia le politonalità e i poliritmi, sia le vaghezze impressionistiche. Il suo ultimo lavoro, la Sinfonietta qui eseguita in prima, mette al centro l’idea del ritmo come motore tematico: vi confluiscono sia rimembranze della natìa Columbia (qualcuno in Italia, in epoca post-sanremese, parlerebbe, assai poco a proposito, della cumbia), sia moduli di danze balcaniche e slave (qualche accenno semplificato al Sacre), con cui apre e chiude, per lasciare spazio, nel mezzo, alla parte più interessante, in cui una certa cantabilità debussyana si adagia su colori bitonali à la Ives.
Una musica molto di scena, per trame che ognuno può immaginare.
Così che quando arriva l’attesissima conclusione del programma, con quel conclamato, mesto capolavoro qual è la “Notte trasfigurata” di Schönberg, chi ascolta è già nel clima mentale per crearsi una sua propria sinossi e andare al di là del cammino notturno al chiaro di luna dei due amanti che si raccontano di un figlio che arriverà ma che, pur non essendo totalmente loro, pare comunque il frutto di una storia più grande che coinvolge la natura e, simbolicamente, un disegno persino in qualche modo mistico-panteistico (in tono con le idee dell’autore del poemetto, Richard Dehmel, cui si riferisce questa sorta di musica a programma di fine secolo).
La versione originale dell’op. 4 di Schönberg è del 1899, per sestetto d’archi, che all’Elba erano Chiara Sannicandro e Diet Tilanus (violini), Georgy Kovalev e David Quiggle (viole), Raphael Bell e Cecilia Hutnik (violoncelli).
Schönberg la divide in cinque parti: 1) il notturno, molto lento, coi due amanti sotto il cielo stellato, che iniziano a dialogare sopra il pedale di Re (il giovane Schönberg usava ancora le toniche); 2) la confessione (musicalmente animata) della donna, con l’esposizione del tema principale che si sviluppa in un dialogo tormentato fra i registri estremi delle tessiture; 3) la drammatica attesa della reazione dell’uomo, in una devastazione interiore che si situa a metà del guado (armonicamente, significativamente, mezzo tono sopra); 4) la risposta dell’uomo, inaspettata, tranquillizzante (con un secondo tema nel modo maggiore); 5) la coda conclusiva che sancisce l’unione con la natura.
Questa è una delle opere che, storicamente, contribuiscono a chiudere un certo modo di pensare il linguaggio musicale: basti pensare a come lo stesso Schönberg, tredici anni dopo, avrebbe reso il canto alla luna di Pierrot, poeta triste, solitario – y final – in un modo, diciamolo pure, totalmente inimmaginabile. Molti anni dopo, in mezzo a una ancor più impensabile seconda follia mondiale, quasi inconsapevole di aver per intanto provveduto all’invenzione della dodecafonia, Schönberg rivisita per orchestra d’archi la sua Verklärte Nacht. Oggi, a 150 anni dalla nascita dell’autore e a 125 da Verklärte Nacht, il sestetto dell’Elba plasma un piccolo gioiellino di distaccata oggettività: in mezzo ad altre guerre e ad altri sconquassi, umani e naturali, non occorre gridare, serve piuttosto dialogare, guardandosi anche a fari spenti, cercando il suono, nella penombra e nel sogno di una notte trasformata dalla bellezza della musica.
Riccardo Brazzale
(1º Settembre 2024)
La locandina
Flauto | Adam Walker |
Violino, concertatrice | Liana Gourdjia |
Violino | Chiara Sannicandro, Aki Saulière |
Viola | Georgy Kovalev, David Quiggle |
Violoncello | Raphael Bell, Cecilia Hutnik |
Elba Festival Orchestra | |
Programma: | |
Wolfgang Amadeus Mozart | |
Concerto per flauto e orchestra K. 313 | |
Arturo Cuéllar | |
Sinfonietta per orchestra – Prima esecuzione mondiale | |
Аrnold Schönberg | |
Verklärte Nacht op. 4 per sestetto d’archi |
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