Venezia: il resoconto dell’81ª Mostra del Cinema 3/3
Continua la nostra rassegna dei film in concorso a Venezia quest’anno: la mattina del 3 settembre la Sala Grande ha proiettato in anteprima Harvest, di Athina Rachel Tsangari, tratto dal romanzo Il raccolto di Jim Crace. Ambientato in un immaginario paesino nella Scozia rurale del Medioevo, il film vede Caleb Landry Jones, acclamatissimo per il vuoto Dogman di Luc Besson dell’anno scorso, recitare con accento scozzese (durante le conferenze stampa dell’anno scorso l’attore era già nel suo nuovo personaggio) nei panni Walter Thirsk, un infangato e primordiale hippie che non trova un vero posto nella comunità, e ne osserva quasi passivamente i cambiamenti, simboleggiando la natura che viene stravolta dallo sfruttamento umano attraverso la tecnologia e l’industrializzazione, rappresentata dal sovrano Master Jordan (Frank Dillane). Un’idea ambiziosa, ma non realizzata in modo chiaro e definito, il film sembra aver forza ed originalità nella sua prima parte per poi diventare confusionario e troppo enigmatico man mano che si va verso la (agognata) fine. Un po’ uno Gli spiriti dell’isola che non ce l’ha fatta. E, sinceramente, (come lo sfortunato Franz Rogowski in Lubo l’anno scorso, semplicemente da incubo) Caleb Landry Jones, per quanto indubbiamente bravo, come bello e misterioso non funziona.
Attesissimo il film in concorso Queer di Luca Guadagnino, basato sul controverso romanzo di William Borroughs, che vede protagonisti Daniel Craig e Drew Starkey. La firma di Guadagnino si vede già dai primi minuti del film, grazie anche all’aiuto dello sceneggiatore Justin Kuritzkes, lo stesso di Challengers: sudore, colore, suono, movimento, il tutto esasperato e potente, in una vibrante Città del Messico ricostruita a Cinecittà, dove il protagonista Lee, magistralmente interpretato dall’attore inglese, vive una vita fatta di vizi e trasgressione, ma anche di fragilità e desiderio. L’incontro con l’enigmatico Gene stravolgerà la vita dell’uomo, in una sceneggiatura cangiante che da love story tormentata diventa un disperato viaggio che ha per scopo il superamento dei propri limiti per una felicità superiore: la ricerca di una pianta che conferisce poteri telepatici, e quindi, per Lee, la capacità di entrare nella mente del suo amante, che lo prende e lo ripudia a suo piacimento. Anche la regia si trasforma, la classe e la raffinatezza di Guadagnino (piani sequenza e carrellate stupefacenti) lasciano spazio a una regia più astratta, quasi lynchana in alcune scene, che lascia lo spettatore forse un po’ perplesso ma piacevolmente stupito. Degna di menzione Lesley Manville, irriconoscibile nel ruolo della spaventosa “strega dei boschi” Dr. Cotter. Alla nostra domanda a Luca Guadagnino durante la conferenza stampa: «Ha parlato del percorso di adattamento dal romanzo al film; ci sono state delle nuove, diverse difficoltà, rispetto ai suoi lavori precedenti, che ha dovuto affrontare durante la realizzazione di questo film?», il regista ha risposto: «È stato un processo straordinariamente semplice e diretto per me. Accompagnato da questi fantastici partner è stato gioioso, divertente e malinconico, a volte complicato, perché abbiamo ricreato questo mondo a Cinecittà, non abbiamo girato sul posto, ma sai che fa parte del lavoro. Il viaggio che ho fatto con loro è stato davvero adorabile, dolce e pieno di divertimento».
Continuiamo con una piacevole e sorprendente scoperta: Los años nuevos, una serie in dieci episodi fuori concorso a Venezia creata per la piattaforma spagnola Movistar+, e diretta dal bravissimo Rodrigo Sorogoyen. La premessa è semplice ed efficace, una storia “de toda la vida”: due ragazzi di 30 anni si conoscono ad una festa di Capodanno, si innamorano, e da quel momento ogni episodio ci farà viaggiare nel tempo al Capodanno dell’anno seguente. I due attori protagonisti Iria Del Río e Francesco Carríl sono intensi e naturali, come anche tutto il resto del cast, e riescono a portare sullo schermo vere emozioni anche con dei semplici sguardi, tant’è che ci si dimentica di stare guardando un’opera di finzione. Non mancano i colpi di scena, si ride, ci si commuove, si pensa alla propria vita, agli errori commessi e ai traguardi raggiunti, a quante volte si è stati sognatori come Ana o teneri e testardi come Óscar. Una delle opere migliori di quest’anno, senza dubbio, 10/10.
Il terzo film francese in concorso al Lido è Jouer avec le feu, delle sorelle Delphine e Muriel Coulin, tratto dal romanzo Quel che serve di notte di Laurent Petitmangin. Un film duro, toccante, crudo, che parla d’amore, quello incondizionato dei genitori verso i propri figli, qualsiasi siano le loro scelte. Nella provincia francese di Metz, il vedovo Pierre (Vincent Lindon) vive con i suoi due figli una vita tranquilla, finché il suo primogenito Fus comincia a frequentare gruppi di coetanei di estrema destra, e, nonostante l’affetto che lo lega al padre e al fratello minore, cerca la sua identità ribellandosi alle regole e partecipando a manifestazioni violente neofasciste. Ottima l’interpretazione di Vincent Lindon, valsagli la Coppa Volpi come miglior attore, nell’interpretare i conflitti interiori di un padre diviso tra l’affetto per il proprio figlio e la volontà di interferire con il suo stile di vita, che porterà il giovane Fus a dover affrontare irreparabili conseguenze.
Intensa le giornate del 4 e 5 settembre, con quattro film in concorso.
Il terzo film italiano presentato per la categoria una produzione Netflix, Diva Futura, racconta la storia della “grande famiglia” della più importante agenzia italiana di casting e produzione specializzata in pornografia negli anni 90. Diretto da Giulia Louise Steigerwalt, è ispirato al libro Non dite alla mamma che faccio la segretaria, di Debora Attanasio (ex segretaria, appunto di Riccardo Schicchi, il fondatore dell’agenzia). Protagonista Pietro Castellitto, ormai un habitué della Mostra del Cinema di Venezia, che interpreta Schicchi e crea su di lui un divertente personaggio goffo, imbranato, ispirandosi al suo essere naïf e, in qualche modo, romantico e vecchia scuola riguardo ai film prodotti, forse per il suo estro creativo da ex fotografo. Degne di nota le tre talentuosissime giovani attrici che hanno interpretato nel film le principali star del porno italiano, rispettivamente Lidija Kordic (Ilona “Cicciolina” Staller), Tesa Litvan (Éva Henger) e Denise Capezza (Moana Pozzi), con la quale abbiamo avuto il piacere di dialogare dopo la conferenza stampa; quando le abbiamo chiesto come avesse fatto a ricreare così bene la voce e l’accento della Pozzi, ci ha risposto: «Ho lavorato in modo maniacale, ero molto motivata per portare nel film una versione di Moana più fedele possibile. Essendo nata e cresciuta a Napoli per me non è stato facile, ho studiato in profondità il mio personaggio, e sono molto contenta del risultato che sono riuscita ad ottenere». Un vero peccato, però, che nonostante la bravura degli attori protagonisti, Diva Futura sia il tipico film Netflix: trucco e parrucco carnevaleschi, narrazione e sceneggiatura da tipico biopic e finale alla “e vissero tutti felici e contenti nonostante tutto”. Basta, Netflix, non se ne può più.
Un altro film in concorso (chissà come mai) è l’attesissimo Joker: folie à deux, di Todd Phillips, regista del fortunato primo capitolo Joker, valso il Leone D’Oro nel 2019 e l’Oscar come migliore attore a Joaquin Phoenix. Necessario? No, ma evidentemente il bravo regista e l’attore protagonista “si sono lasciati convincere” dalla Warner Bros e dalla DC. L’impegno, comunque, c’è, e si vede. Joker: folie à deux, nonostante sia una chiara operazione commerciale, è un film scritto, pensato e realizzato bene, seppure non abbia uno scopo preciso se non quello di fruttare un buon incasso al botteghino. È un musical senza essere un musical, un cinecomic senza essere un cinecomic, un sequel senza essere un sequel. Le canzoni sono interessanti ma non orecchiabili, enfatizzano inutili a livello narrativo, così come i pochi numeri di ballo, anche se bisogna ammettere che Joaquin Phoenix vocalmente fa un figurone, mentre Lady Gaga, che interpreta la sua groupie che condivide solo il nome con il personaggio dei cartoni animati e poi dei fumetti della DC Harley Quinn, interpreta quasi sé stessa e viene, peraltro, sfruttata molto poco, dato che più che una co-protagonista è un personaggio secondario nella storia. Storia che quasi non c’è: Joker 2 si svolge subito dopo Joker 1, e si svolge quasi interamente durante il processo ad Arthur Fleck (questa reinterpretazione del Joker, appunto) per gli omicidi compiuti nel primo film. Si torna ad esplorare la mente e la follia dell’Arkham Hospital (chicca per i fan, non ancora Asylum), con inquadrature e scene visivamente d’impatto, che diverranno iconiche nella storia del cine-fumetto quando il film uscirà nelle sale, ma il risultato finale della pellicola è un po’ confusionario. Pochi, come nel primo, i richiami alla controparte cartacea dei personaggi, ma il finale ambiguo lascerà spazio a non poche speculazioni da parte dei fan.
April, film della georgiana Dea Kulumbegashvili, è forse la proposta cinematografica di questa Mostra meno indirizzata a tutti i tipi di pubblico. Nina (Ia Sukhit’ashvili), è un’ostetrica in un ospedale di provincia in Georgia. Dopo la morte di un neonato durante il parto e voci che la accusano di praticare illegalmente aborti a chi ne ha bisogno, la sua professionalità viene messa in discussione, e Nina si trova a dover continuare la sua attività in segreto, mentre lotta con il suo rapporto con gli uomini e con il sesso in una società fortemente patriarcale. Rapporto che sembra tradursi in un alter-ego della protagonista, una creatura mostruosa, senza volto, dalla pelle flaccida e dai movimenti goffi, che appare a Nina in visioni oniriche. Che la regista voglia trasmettere il messaggio che la felicità per le donne sia un obbiettivo quasi impossibile da raggiungere, e che la lotta per la giustizia e l’eguaglianza dei sessi è una battaglia persa in partenza? Siamo davanti a un film fortemente sociopolitico, enigmatico e cupo, ben realizzato dal punto di vista della messa in scena e della fotografia, fatto di soggettive fortemente perturbanti e long take statici (si veda la scena in cui Nina pratica l’aborto ad una ragazza, un lungo fuori campo, a differenza della scena iniziale della morte del neonato durante il parto, di grande impatto come a voler sconvolgere immediatamente lo spettatore), colori e luci che compongono dei veri e propri quadri, suggestivi e misteriosi. Importante anche l’uso dei suoni e dei rumori, come, ad esempio, l’abbaiare dei cani in lontananza, come ad indicare il costante fiato sul collo sulla protagonista della società patriarcale che opprime le donne, costringendole ad un’esistenza sempre più degradante.
Stranger eyes, di Yeo Siew Hua, è il primo film di Singapore in concorso per il Leone D’Oro nella storia della Mostra del Cinema di Venezia. La pellicola si sofferma ad analizzare quanto ci sia di nascosto dietro le apparenze, ed invita ad osservare attentamente anziché guardare in modo superficiale chi ci sta attorno. Dopo la misteriosa scomparsa della propria bambina, una coppia di genitori appena maggiorenni inizia a ricevere strani video, e si rende conto che qualcuno ha filmato la loro vita quotidiana, compresi i momenti più intimi. La polizia mette la casa sotto sorveglianza per tentare di sorprendere il voyeur, ma la famiglia inizia a sgretolarsi a mano a mano che i segreti si svelano sotto lo sguardo attento di occhi che li osservano da ogni parte. Ed è proprio quest’osservatore nascosto il vero protagonista del film, interpretato dal bravissimo ed intenso Lee Kang-sheng, attore taiwanese. Quando, durante la conferenza stampa, abbiamo chiesto al regista: «Ha menzionato la componente emotiva di ogni stalker, e quanto il vissuto di ogni persona possa influire nel suo comportamento. È forse questo il messaggio che il film vuole veicolare, ovvero giudicare il voyerismo e chi viene considerato uno stalker sotto un’ottica diversa, più umana? O è solo un modo per presentare i personaggi del film, le loro emozioni e i loro sentimenti?», la risposta di Yeo Siew Hua è stata: «Questo film è stratificato, e tutti i suoi strati sono relazionati all’idea del guardare, del vedere e dell’essere visti. Uno di questi aspetti per me è molto importante: forse non abbiamo mai un quadro completo, non riusciamo mai ad avere veramente lo sguardo di Dio su nulla, giusto? È sempre un pastiche di prospettive, di punti di vista, e penso che sia questo ciò che abbiamo cercato di ottenere, attraverso la fotografia, attraverso il suono, attraverso le prospettive. Penso che ciò che vogliamo presentare riguardi, appunto, i punti di vista: se si riesce ad andare oltre la superficie si inizia a capire chi è davvero l’altra persona che apparentemente sta commettendo qualcosa di sbagliato. Ti si presenta davanti come uno stalker, come un pervertito, ma forse c’è molto di più. Forse siamo troppo abituati a scorrere semplicemente sui nostri smartphone, di questi tempi, invece di guardare davvero. Dovremmo passare più tempo a guardare qualcuno con attenzione, con sincerità». Iconica e simbolica per il film stesso la scena in cui la nonna della bambina scomparsa viene osservata dalle telecamere di sicurezza all’interno dell’ascensore, mentre lei, a sua volta, osserva da dietro una sconosciuta mentre guarda il proprio smartphone. Alla bellissima fotografia, all’ottima regia e alla bravura degli attori protagonisti il film può vantare della collaborazione di uno dei sound designer più importanti dell’Asia, il taiwanese Tu Duu-chih. Se questo è il tipo di cinema che ci propone il Singapore non vediamo l’ora di ospitarlo nuovamente al Lido.
Iddu-L’ultimo padrino, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, è l’ultimo dei film italiani in concorso. Il ganster movie italiano, tanto di moda negli ultimi anni, incontra il biopic, ispirandosi alla corrispondenza, architettata dalle autorità, tra il boss mafioso Matteo Messina Denaro e un ex sindaco di Castelvetrano tra il 2004 e il 2006 con lo scopo dell’individuazione e cattura del criminale. I due talenti italiani Toni Servillo ed Elio Germano portano in scena rispettivamente Catello e Matteo (come viene chiamato per tutto il film, nascondendo il cognome del latitante), ma la messa in scena della vicenda non brilla per originalità. Inizialmente vengono narrate le “origini” del personaggio, come fosse un film su un supereroe, e nonostante Elio Germano sia bravissimo ad interpretare l’inquietante ed intimidatorio mafioso, evidenziandone l’aspetto umano e il fatto che dietro della maschera ci fosse un uomo sensibile (per quanto squilibrato) fortemente legato a dei valori, il film sembra voler dare più spazio al macchiettistico personaggio di Toni Servillo. Un po’ un’occasione sprecata.
L’ultimo film in concorso che abbiamo visto è stato Qīngchūn: Guī, letteralmente traducibile come “Primavera: ritornare”, ma tradotto in inglese come Youth: Homecoming, il terzo di una trilogia di documentari (dopo Youth: Spring e Youth: Hard Times), un colossale progetto del regista cinese Wang Bing, che ci porta nelle vite dei giovani operai tessili emigrati nella città di Zhili, a 100km da Shanghai. Entrando nei mezzi pubblici, nei loro laboratori, e nelle loro abitazioni, Wang Bing segue i protagonisti con la camera a mano, in un interessante e malinconico reality show che ritrae la questione sociale della classe operaia senza, però, denunciarne le condizioni, o per lo meno non in modo esplicito, ma mettendo in scena con umiltà e dedizione i gesti quotidiani di ragazzi giovani nati in una realtà sociale in cui il lavoro è lo scopo primario della propria esistenza.
Film di tutt’altro stampo è Broken Rage, del giapponese Takeshi Kitano, esilarante commedia demenziale in stile gangster di soli 62 minuti, fuori concorso a Venezia 81. La prima parte si snoda raccontando la vicenda di un sicario e delle sue vicissitudini tra yakuza e polizia locale, mentre la seconda segue le stesse vicende della prima ma in chiave comica, sfondando spesso la quarta parete e causando fragorose risate tra il pubblico, che finalmente (udite udite) SI DIVERTE.
Miglior opera prima e trionfo indiscusso di questa Mostra del Cinema: Familiar Touch, della regista statunitense Sarah Friedland, che porta a casa il Leone del futuro – Premio Venezia opera prima con un lungometraggio in gara nella sezione Orizzonti, anche premiato per la miglior regia e migliore attrice della categoria, una straordinaria Kathleen Chalfant. La protagonista è Ruth, un’anziana donna la cui mente sta lentamente svanendo a causa dell’Alzheimer, che viene condotta dal figlio in una struttura per anziani (la casa di riposo Villa Gardens, a Pasadena, in California, reale set del film) dove rimarrà per il resto della sua vita. Una storia reale e triste, ma girata e recitata in modo eccezionale, toccante e veritiero (la regista ha affermato che l’ultimo periodo della vita di sua nonna è stato l’ispirazione principale per il suo lavoro), che alterna toccanti scene nostalgiche a momenti di triste smarrimento della protagonista, e che porta sullo schermo il tema della demenza senile in modo più convenzionale rispetto al capolavoro The Father di Florian Zeller, ma non per questo meno efficace e commovente.
Il Leone d’Argento – premio speciale per la regia è andato a Brady Corbet, regista ed ex-attore statunitense, per The Brutalist, un’altra delle grandi sorprese di Venezia 81, film biografico sull’architetto ebreo ungherese László Tóth, sopravvissuto all’Olocausto, che è tra i film (o forse IL film) di maggior successo di quest’anno, che non vediamo l’ora di vedere al cinema.
Un anno intenso il 2024 per la Mostra del Cinema, tanto caldo fuori ma anche dentro le sale: il sesso è stato raccontato in tanti modi (Babygirl, April, Diva Futura), c’è stato poco LGBTQ+ (a parte Queer, che è comunque una storia singolare, grottesca e struggente e fuori dagli schemi “romantici” a cui siamo abituati), tanti divi sul tappeto rosso e fuori (gli immancabili e pressocché sconosciuti influencer dagli outfit sorprendenti) e nessun film che abbia fatto gridare al capolavoro come La Bête e Povere creature! l’anno scorso.
E tra troppe sigarette, amore, odio, vite distrutte e ricostruite, sorrisi e lacrime ringraziamo ancora una volta il Lido per averci ospitato e, come ha detto Lady Gaga nella conferenza stampa, averci fatto esplorare, con i suoi film, mondi ed esistenze diverse dalla nostra, anche se solo per poche ore.
Michele Carmone
12 settembre 2024
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