Lucca: alla Tenuta dello Scompiglio le meraviglie della musica invisibile

Immagino che Antonio Caggiano (direttore artistico per le attività musicali Dello Scompiglio) ideando il programma di repertori contemporanei dedicati alle problematiche degli emarginati, gli invisibili, di chi non ha voce, abbia probabilmente riflettuto su come le opere stesse che stava proponendo subissero culturalmente la medesima sorte, cioè, salvo rare eccezioni, una sistematica emarginazione dai cartelloni di festival e rassegne. Il solito annoso, stantio problema della musica d’oggi, quella difficile, di nicchia che, quando va bene, scovi nascosta da lungimiranti direttori artistici tra Mozart e Beethoven per non traumatizzare gli abbonati di turno.

Non posseggo soluzioni, formule utili per superare questa impasse. Cercare, essere curiosi, rompere confini, potrebbe essere una possibilità. Così ha fatto un bel gruppo di temerari in un sabato ottobrino grigio ma tiepido tra le fascinose colline lucchesi. Le attività, le programmazioni, le visioni della Tenuta dello Scompiglio, mai banali, spesso sorprendenti e controcorrente, offrono il privilegio di godere di un concerto di alto valore musicale, quanto culturale. Malipiero, Bryars, Sani, Foss, in un contenitore dal titolo programmatico Many have no speech , con il Quartetto Sincronie e il duo Sorrentino-Caggiano.

Gian Francesco Malipiero (1882-1973) anticonformista, isolato, insofferente a scuole e tendenze, il suo comporre lo si potrebbe definire un costante conflitto vissuto nel rischioso equilibrio tra il profondo amore verso  tradizioni remote e una vivace ricerca linguistica. Questa vitalità creativa si scontra nei bui anni Trenta con la censura fascista che bandisce da tutti i teatri la sua opera La favola del figlio cambiato. Questo doloroso episodio accentua nell’originale scrittura malipierana una frattura, un segno di pessimistica espressività. A fronte di un’ampia produzione che affronta molti generi, nell’intimità del quartetto d’archi ne possiamo rintracciare segnali significativi. Ce lo dimostra ampiamente la lettura che il Quartetto Sincronie, che risulterà il vero mattatore della serata lucchese, ci regala del Quartetto per archi n.4. Composto nel 1934, senza titolo e concepito in un pezzo unico come gli altri sette, racchiude in se l’originalità, lontana da tentazioni neoclassiche, di una costruzione dove svolazzanti elementi melodici, turbamenti, diluiti in fantasie ritmiche, si muovono su uno sfondo di frizzanti armonie. L’antivirtuosismo di Malipiero, spinge gli esecutori sul fronte di un profondo scavare espressivo e timbrico che i quattro di Sincronie affrontano con convincente e delicata sensibilità collettiva. Il lavoro si apre con tensioni, intrecci misteriosi che lentamente si diradano a favore di panorami moderati dove si perpetua una costante elegante filigrana e affiora l’ammirazione del compositore per Debussy. Il finale dolcissimo ci lascia in un silenzio inquieto.

Il cambiamento di scenario non è proprio indolore, ma a pensarci bene anche Jesus’ Blood Never Failed Me Yet  di Gavin Bryars (1943) del 1971 possiede un retrogusto che sa di antico e rituale pur in un contesto molto più vicino a noi. La voce, la sofferente frase di un anonimo clochard londinese che da il titolo all’opera, registrata e fatta girare in loop, disegna una lieve quanto straziante preghiera dove il vissuto dell’emarginazione, dell’esclusione sociale non si traduce in ribellione ma in un consolatorio e devoto inno religioso. L’inflessione della voce, la ripetizione quasi ossessiva della stessa frase, la conseguente estraniazione preparano il terreno, quel vuoto che sta dietro  viene lentamente, progressivamente, riempito da armonizzazioni strumentali. Vibrafono, archi e chitarra elettrica aggiungono, sovrappongono, in un crescendo che ti toglie il respiro, frasi leggere che si intersecano fino a costruire una ragnatela dove la voce stessa del senza tetto diviene suono, il messaggio della solitudine sfuma, si dissolve tra le onde fluttuanti del vibrafono, gli accordi sognanti della chitarra elettrica (con qualche accento country), nella fascinosa trama introspettiva delle corde.

La scelta del suicidio, come soluzione di problemi esistenziali, al male di vivere, accompagna costantemente le biografie di molti intellettuali e artisti, in tutti i periodi storici. Si potrebbe dire che la ricerca della bellezza, di quel segno, di quella parola, di quel suono, il processo creativo consumi in modo feroce la fragilità, la sensibilità, il corpo, il rapporto con la vita dell’artista. La vicenda di Mark Rothko (1903-1970) è in questo senso emblematica. Le biografie parlano di problemi di depressione, eccesso di alcol e fumo, ma è davanti alle sue opere che capiamo realmente il dramma esistenziale del pittore statunitense.

Questo è successo a Nicola Sani (1961) davanti a Four Darks in Red : l’astrattismo cromatico, mistico e lirico di Rothko, quattro rettangoli di diversa misura e tonalità distribuiti verticalmente su uno sfondo rosso scuro. La sua disarmante semplicità è travolgente, il compositore pensa subito ad una partitura per quartetto d’archi che segua graficamente le forme dell’opera, come la conseguente disposizione spaziale non tradizionale della formazione, con i due violini all’estremità, violoncello e viola al centro. Ma non solo, l’uso della traccia pre-registrata da un altro quartetto come spazio elettronico caratterizza, nell’incontro-scontro con il suono acustico del quartetto live, un’opera di una visionarietà travolgente. L’aspetto spirituale e contemplativo di  Four Darks in Red  attraverso le dinamiche dei suoni, come attraverso i colori, gli strati trasparenti di Rothko, emerge in una dimensione atemporale coinvolgente. Sani trascina il quartetto su lidi inusuali, estremi, lo immerge nel mistero dell’assenza di ogni traccia figurativa; pensa l’elettronica non come orpello aggiuntivo, ma come  diaframma creativo, pulsante materia sonora che mette magicamente  in contatto chi ascolta con la genialità, la fragilità dell’artista visivo.

Ricordo in una foto di fine anni ’60, forse una manifestazione studentesca, una ragazza che mostrava ben visibile sulla sua camicetta un bottone giallo con la scritta in nero All I want is love. Quella breve frase rivoluzionaria nella sua ingenua pregnanza, oggi, che viviamo un momento drammatico della nostra storia, ci pare insignificante, eppure sintetizza bene tutto quello che stava dietro alla contestazione sessantottina. Quell’immagine mi è venuta in mente all’attacco della composizione di Lukas Foss (1922-2009) Paradigm, opera scritta proprio nel 1968. In una costruzione caotica tra percussioni, chitarra elettrica e archi, la voce, le voci, le urla, le brevi frasi a rotazione di tutti i musicisti trasfigurano nell’evocazione del dibattito di quegli anni, scompigliato (siamo nel luogo giusto), anche confuso ma con un comune denominatore, l’urgenza irrimandabile di cambiare la società. Antonio Caggiano è il regista dell’happening, segue le indicazioni del compositore ma gode di ampi spazi di libertà creativa, improvvisa soluzioni varie usando, alternando strumenti diversi, crea episodi ritmici, provoca. Tutti sono coinvolti non solo strumentalmente, non solo con la voce ma anche nel gesto, con il corpo. Al culmine dell’estasi collettiva il percussionista richiama tutti all’ordine, i quattro di Sincronie si bloccano a turno, solo Sergio Sorrentino si rifiuta, si ribella, continua a suonare la sua luccicante chitarra da solo e chiude con un eccitante e sovversivo segno hendrixiano, che portiamo a casa come ricordo di una gran bella serata.

Paolo Carradori
(19 ottobre 2024)

La locandina

Many have no speech
Quartetto Sincronie
Violini Houman Vaziri, Agnese Balestracci
Viola Arianna Bloise viola
Violoncello Alessandro Mazzacane
Chitarra elettrica Sergio Sorrentino
Vibrafono e percussioni Antonio Caggiano
Programma:
Gian Francesco Malipiero 
Quartetto per archi n.4
Gavin Bryars
Jesus’ Blood Never Failed Me Yet  per chitarra elettrica, vibrafono e quartetto d’archi
Nicola Sani
Four Darks in Red  per quartetto d’archi e elettronica
Lukas Foss 
Paradigm  per percussioni, chitarra elettrica e quartetto d’archi

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